Vasto e complesso fu il processo di trasformazione che, iniziato nel XVI secolo e terminato nel XX, portò al complesso vestimentario maschile – per varie ragioni poi abbandonato a favore di abiti anche arrivati dal continente –, oggi riconosciuto come “Costume Popolare della Sardegna”.

FIGURA 1: Villano d’Ogliastra

A parlarcene è Gabriele Lai, Presidente dell’Associazione Nostra Signora di Monserrato di Bari Sardo.

FIGURA 2: Costume di Tertenia di Giorgio Ansaldi detto il Dalsani

«Anche in Ogliastra l’abito tradizionale maschile, diverso e articolato nel suo genere, suscitò l’interesse e la curiosità di visitatori anche extra-insulari, perché attratti dalla sua autentica arcaicità» spiega Lai. «La testimonianza iconografica delle tavole del Cominotti e Luzzietti risalenti al primo ventennio del 1800 descrivono in maniera meticolosa il vestiario del “Villano d’Ogliastra” un uomo dal volto barbuto, con il berretto piegato sul davanti e treccia riportata da sinistra.»

Intorno alla metà dell’Ottocento, spiega Lai, l’acquarellista Giovanni Gessa ritrasse in maniera molto precisa l’uomo in abito tradizionale di Bari Sardo e Villagrande Strisaili.

FIGURA 3: Costume di Villagrande Strisaili, acquarello di Giovanni Gessa

«Più tardi, intorno al 1870, Giorgio Ansaldi detto Il Dalsani ritrae un uomo di Tertenia con il suo caratteristico corpetto di colore azzurro. Purtroppo l’abito maschile, a differenza di quello femminile ancora in uso, andò totalmente in disuso durante il secolo scorso. La semplicità dei materiali impiegati per la sua realizzazione e la manifesta austerità del taglio fanno risalire l’appartenenza di questo vestiario a un ceto sociale medio. Il nero, il rosso scarlatto e il bianco sono i colori predominanti mentre il panno e l’orbace sono i materiali utilizzati per la realizzazione. Il gonnellino, denominato anche “Ragas”, viene realizzato in orbace o in panno nero plissettato nella parte alta, e i suoi lembi inferiori sono uniti da una striscia dello stesso tessuto. La camicia e i calzoni bianchi, “Carzonis”, venivano realizzati in tela di cotone bianco oppure di lino. Le ghette venivano fatte in orbace e orlate inferiormente da un bordino di velluto nero e legate alla gamba con una stringa di cotone. La “Berritta” di colore nero veniva realizzata in filato di lana lavorato a maglia tubolare chiuso all’estremità superiore, infeltrita con bagni in acqua calda e infine cardata all’esterno. Non presentando cuciture è particolarmente confortevole ed adattabile alla testa che la indossa.»

A completare l’abito, a seconda dell’occasione, c’erano cappotti corti, giacconi e giacche.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

“The Old and New Era Today” (la vecchia e la nuova era oggi): questo è il titolo dell’opera muraria creata dagli studenti della V A del Liceo Artistico di Lanusei in un Progetto CLIL, coordinato e diretto dalla Prof.ssa Maria Antonietta Fiera, docente di Lingua e Cultura Inglese, concluso qualche giorno fa, ispirato alla storia e alla letteratura inglese e realizzato durante le ore curriculari di inglese.

Da cosa si è partiti per creare un murale che offre diversi spunti di riflessione? Innanzitutto dallo studio di diversi scrittori di fine ottocento, inizio e metà Novecento, come Joseph Conrad, James Joyce, Virginia Woolf, Thomas Stearns Eliot. Il filo conduttore della narrazione muraria è “Heart of Darkness” (Cuore di Tenebra) di Conrad, romanzo breve, il cui tema principale è il Colonialismo. Gli Europei in quegli anni (fine 800) andavano i Africa principalmente per motivi economici, ma mascheravano queste missioni di sfruttamento sotto il falso pretesto della civilizzazione.

L’azione prende avvio a Londra, su un battello sul Tamigi in attesa di salpare. A bordo ci sono cinque uomini: tra di loro vi è il narratore, di cui sappiamo pochissimo, e un uomo di nome Marlow, che esprime giudizi molto duri sulle atrocità del colonialismo di cui ha preso coscienza durante un suo viaggio in Africa, sul fiume Congo. Il racconto in prima persona di Marlow, nella forma di una storia nella storia, costituisce il resto del romanzo interpretato non solo come un atto di accusa al razzismo, colonialismo e imperialismo europeo, ma anche come un percorso di introspezione psicologica nell’animo umano, alla ricerca delle radici del male. Nel romanzo il male è soprattutto incarnato dal misterioso Kurtz, l’agente dei mercanti di avorio, che ha reso brutalmente schiavi gli indigeni, ma da cui è paradossalmente idolatrato.

Marlow è ossessionato da lui, dalle sue potenzialità, ma anche affascinato inconsciamente dalla sua ferocia. Il viaggio avventuroso e oscuro in Africa, per mare ma soprattutto per fiume, diventa metafora di una discesa negli abissi insondabili dell’animo umano che inducono Conrad a tracciare un parallelismo tra Londra e l’Africa, ove il Tamigi e il Congo sono strettamente legati l’uno all’altro sfociando nell’immensa oscurità dell’Oceano, dove il viaggio prosegue inesorabilmente.

È proprio in questo scenario – spiega la professoressa – che il murale va oltre l’immaginario del romanzo in questione, mostrando sulla riva del mare due uomini vuoti, così come li definisce Eliot nella sua poesia “The Hollow Men”, implacabili, freddi, calcolatori e dalla testa di paglia, su cui si infrangono le onde come fossero scogli; si danno le spalle, non comunicano, ma hanno lo stesso obiettivo: la conquista di nuovi territori, la scoperta di luoghi nuovi.

Chi sono? Possono essere il politico da un lato e il colonizzatore dall’altro oppure possono rappresentare il tema del doppio (Marlow è consapevole che nel suo inconscio può arrivare agli stessi livelli di pazzia e di crudeltà di Kurtz, sa che il confine tra razionalità e irrazionalità è labile in lui); possono simboleggiare l’attuale conflitto russo- ucraino, la divisione tra due paesi dilaniati da guerre incessanti. Se così fosse, quale sarebbe la differenza tra la vecchia e la nuova era oggi?

Eppure dalla stoltezza di questi uomini vuoti e senza identità, che non riescono nemmeno a stare in piedi da soli, ma la cui discesa agli inferi procede molto velocemente, s’innalza la speranza, nutrita dagli studenti della VA, di una possibile rinascita rappresentata dalla fenice, in alto al centro del murale, un uccello leggendario che affonda le sue radici nell’antichità, un mito che la vede rinascere dalle fiamme purificatrici e dalle proprie ceneri. Il fuoco, insieme agli altri elementi, aria, acqua, terra è un elemento determinante nel murale, non solo perché rappresenta la rinascita, ma anche perché in tutti questi cinque anni ha suscitato molta curiosità negli studenti per motivi legati ad alcuni argomenti della storia inglese: il grande incendio di Londra del 1666, il primo Globe Theatre distrutto da un incendio provocato nel 1613, a causa di un cannone utilizzato come oggetto di scena, il Palazzo di Cristallo distrutto da un altro incendio nel 1936, per non parlare delle Case del Parlamento, dipinte a sinistra dell’osservatore, distrutte ancora una volta da un incendio nel 1834.

Pare, però, che dalle ceneri Londra sia sempre risorta più bella e affascinante, così come appare nell’opera. Cosicché, in questo murale, l’elemento fuoco sembra coronare la fine di un ciclo di studi elettrizzante e determinare, si spera, l’inizio di un altro ancora più entusiasmante.

Il Big Ben segna le 11.00 (ora locale di Londra), ora che segna il cambiamento di un’epoca per l’inizio della cerimonia, il giorno 6 maggio 2023, dell’incoronazione di Carlo III nell’Abbazia di Westminster. Ma non solo questo. Gli studenti hanno volutamente fare un riferimento anche ai rintocchi del Big Ben in “Mrs Dalloway” di Virginia Woolf, dove il tempo, come lo spazio, diventano soggettivi, i piani temporali sono tutt’altro che lineari (come ci ha insegnato il Novecento), l’istante si dilata in flussi di coscienza rappresentati nel murale dai due fiumi lateralmente e dal mare al centro. Anche altri personaggi del Novecento, come quelli di James Joyce e degli stessi Conrad ed Eliot, sono accomunati dai cosiddetti “temporal shifts” o salti temporali nel passato, nel presente e nel futuro relativi a spazi dai confini labili e in continua trasformazione.

Tutto questo e chissà quanto altro ancora hanno voluto rappresentare gli studenti di V A di quest’anno; hanno voluto lasciare il segno ad ogni costo prima di lasciare la scuola, e ci sono riusciti perfettamente. Bravi!

“Un ringraziamento speciale va a questi ragazzi – sottolinea la professoressa Fiera con una certa commozione – che sono riusciti a conciliare studio e creatività con naturalezza e maestria, non perdendo mai di vista l’obiettivo di dare colore, forma e significato ad una parete inizialmente bianca e vuota. Naturalmente ringrazio il Dirigente Scolastico dell’Istituto Leonardo da Vinci di Lanusei, Dr. Andrea Giovanni Marcello – continua la professoressa – il Professor Rosario Antonio Agostaro, fiduciario del Liceo Artistico, il Consiglio di classe della V A, per aver accolto da subito l’idea di realizzare un’altra opera muraria all’interno del Liceo Artistico, e le collaboratrici scolastiche per averci fornito ogni sorta di supporto durante le fasi di creazione dell’opera”.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

In occasione della celebrazione del miracolo della Madonna di Noli me Tollere, verificatosi nel lontano 1208 su una spiaggia del litorale, precisamente a Sorso, è stata realizzata una gigantesca scultura della Madonna con il bambino in braccio. L’opera, scolpita interamente a mano dal talentuoso artista Nicola Urru, è stata posta sulla spiaggia del Terzo Pettine di Platamona, rendendo omaggio alla tradizione popolare e alla storia della Sardegna.

La leggenda del miracolo racconta di un muto che fu incaricato dalla Madonna di richiamare il clero e il popolo di Sorso per proteggerli dai predatori che stavano devastando la Sardegna. Nonostante la sua condizione di privo di parola, il muto obbedì alla richiesta della Signora e, giunto in paese, fu miracolosamente dotato della capacità di parlare, dimostrando così la veridicità della sua missione.

La scultura di Nicola Urru si unisce ad altre opere realizzate dall’artista sulla costa di Sorso, tutte molto apprezzate sui social network.

 

Questa nuova opera d’arte è un modo per celebrare la storia e la cultura della Sardegna, facendo risuonare nella mente dei visitatori la leggenda del miracolo della Madonna di Noli me Tollere.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

C’è tanta Sardegna nel film La Sirenetta.

Per le ambientazioni del film sono state scelte alcune tra le zone più belle della nostra Isola. Nella costa nord Sardegna, tra il parco nazionale dell’Asinara e il Golfo Aranci, fino all’area marina protetta di Tavolara Punta Coda Cavallo. A Tempio il film è stato presentato alle Istituzioni locali, alla presenza delle maestranze che hanno lavorato alla realizzazione della mega produzione. Grazie alla Film Commission è stato dato lavoro a più di 700 lavoratori.

Presente anche l’assessora alla Cultura Andrea Biancareddu e la CEO della Fondazione Sardegna Film Commission, Nevina Satta.

 “ Ancora una volta la Sardegna alla ribalta mondiale grazie al cinema. Un cinema che dà lavoro, un cinema che dà visibilità, un cinema che esalta le nostre bellezze naturali. Un film di Walt Disney è qualcosa di stupendo, di formidabile per la Regione Sardegna, ha sottolineato Biancareddu. Io come assessore alla Cultura posso essere solo fiero di questo, perché abbiamo avuto altri successi come Il Muto dei Gallura e L’isola di Pietro e questo riafferma il contributo che il nostro braccio, la  Film Commission, offre per la nostra visibilità e per l’ economia del territorio. Questo è qualcosa di irripetibile. Quindi io devo dire di essere un assessore fortunato, perché in questo frangente le bellezze della nostra Sardegna sono sulla ribalta mondiale. Abbiamo dato lavoro ai sardi, abbiamo fatto pubblicità alla nostra formidabile isola, al nostro bellissimo ambiente. Quindi sono commosso e raggiante.”

“Un’esperienza che per noi è motivo di orgoglio – ha detto Nevina Satta –  a conferma che i sardi sono dei grandi professionisti e dei lavoratori che sanno distinguersi e soprattutto che la nostra è un’Isola che non solo accoglie il cinema, ma che è perfetta per le storie. Quando abbiamo cominciato le prime conversazioni con Disney nessuno credeva che l’impossibile sarebbe diventato realtà. Ci sembrava quasi un’ambizione eccessiva credere che proprio un grande studio americano trovasse nella nostra Sardegna  le location perfette per la realizzazione della mega produzione.”

La Disney ha ambientato il film sulla costa nord Sardegna, tra il parco nazionale dell’Asinara e il Golfo Aranci, fino all’area marina protetta di Tavolara Punta Coda Cavallo e Castelsardo, dove il castello è stato scelto come dimora di uno dei protagonisti. Nel film si può ammirare l’immenso tesoro naturalistico della Sardegna: 3 parchi nazionali, quattro regionali per circa 30 mila ettari, cinque aree marine protette, 128 siti Natura 2000.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Nuovo appuntamento con il Maggio dei Libri 2023 nella Biblioteca civica “Angelino Usai” di Lanusei. La rassegna curata dall’associazione Voltalacarta, con la collaborazione della cooperativa La Nuova Luna che gestisce il presidio culturale, avrà come ospite Bastiana Madau e il suo libro “Maestre dell’Università sconosciuta”. La saggista di Orani dialogherà con la presidente di Voltalacarta, Loredana Rosa. L’appuntamento è per sabato 27 maggio alle 18, nella biblioteca di via Zanardelli 21.

“Maestre dell’Università sconosciuta” è un libro prezioso perché è nel contempo antropologico, etnologico, poetico, filosofico, umanista e politico. Bastiana Madau racconta l’immenso patrimonio di narrazione orale ancora molto presente in Sardegna, attraverso il filtro della sua memoria personale e arricchendolo con le riflessioni sulla letteratura per l’infanzia e su come l’oralità sostenga la formazione della voglia di leggere.
“La Sardegna”, sostiene l’autrice, “è uno di quei rari luoghi dove ancora pulsa un sapere che passa non dalla carta stampata o dai luoghi d’insegnamento istituzionali, ma da ninne nanne, pani, feste, oggetti, canti.

“Con il suo libro, Bastiana Madau apre mille finestre sul nostro passato, illuminando quindi di preziosi saperi il nostro assetato presente”, spiega Loredana Rosa. “È così che con questo piccolo immenso libro, poesia nella poesia, conosciamo da vicino la temeraria, combattiva e umanissima Marianna Bussalai, ‘organizzatrice di speranza’, sardista e antifascista; incontriamo la coltissima bibliotecaria e poeta Pedra Tzilla mentre viaggia in autobus per la Sardegna per dare voce alle nostre ‘quiete e ignorate poetesse dell’ombra’, rimaste in silenzio per tanto tempo; rivediamo davanti alla luce fioca di un camino, in una casa di Cardedu, Salvatore Cambosu che sussurra racconti a Maria Lai; ritroviamo una giovane e appassionata ‘mastra de partu’ arrivata dal Continente a far nascere quasi duemila bambinə nel paese delle ‘pietre di fuoco’.

Insieme all’autrice mi sono emozionata anch’io col naso all’insù sotto i fiocchi di neve, in una notte stellata nella strada dall’Ogliastra porta a Nuoro. La stessa che, come un ponte creato da questo prezioso libro, porterà per la prima volta l’autrice a Lanusei”.

Nativa di Orani, Bastiana Madau si è laureata in Filosofia a “La Sapienza” di Roma e lavora come editor, critica letteraria, conduttrice di laboratori di educazione alla lettura e alla scrittura. È ideatrice e curatrice della rassegna culturale “Quando tutte le donne del mondo”, nota come “QuFestival”, giunta alla quinta edizione.

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

È il 1987 quando Matteo Porru pubblica la traduzione del “Pinocchio” di Collodi in sardo, sardo campidanese per la precisione.

Non è stata la prima opera importante a essere tradotta nella lingua della nostra meravigliosa isola, però il “Pinocchiu” era la versione sarda di un capolavoro per l’infanzia, quindi sarebbe stato uno strumento utile affinché “is pipius e is piccioccheddus de sa Sardigna” imparassero – in modo divertente tramite un grande classico – la lingua della propria terra, una lingua sempre meno studiata e valorizzata e pertanto poco conosciuta dai nostri pargoli.

“Ci fiat una borta… «Unu rei!» hant a nai luegu is pipius chi hant a liggiri custu liburu. No, pipieddus, heis sbagliau. Ci fiat una borta un arrogu de linna. No fiat linna de valori, ma un arrogu calisisiat de cussus truncus ammuntonaus chi, cand’arribat s’ierru, si ponint in is istufas e in is gimineras po alluiri su fogu e po calentai is domus.”

“C’era una volta… «Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.”

Matteo Porru, classe 1934, è stato insegnante e dirigente scolastico. Ha sempre fatto parte di un circolo di intellettuali strenui difensori della linguistica locale. Ha pubblicato altri libri per valorizzare la lingua sarda.

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Il Museo di Laconi si colloca come una delle principali strutture museali della Sardegna e presenta una vasta collezione di circa quaranta statue-menhir risalenti all’Età del Rame, frutto dei recenti scavi effettuati nel territorio circostante grazie alle ricerche del celebre archeologo E. Atzeni.

La struttura museale, costruita all’interno della pittoresca cornice delle vecchie carceri mandamentali risalenti al 1857, è composta da sette sale, di cui ben sei sono interamente dedicate all’esposizione dei monoliti scolpiti, tra cui i famosi Barrìli I e Genna Arrèle I noti al grande pubblico.

Le statue-menhir in mostra, comunemente indicate anche come “statue-stele”, rappresentano perfettamente la simbologia funeraria dell’epoca e presentano sulla facciata anteriore un’ampia varietà di figure antropomorfe, fra cui quella a forma di candelabro rovesciato, che simboleggia il mondo dell’oltretomba. Alcune statue-menhir presenti nella collezione, invece, sono state riconosciute come rappresentazioni femminili, mentre altre ancora non presentano elementi attribuibili a uno specifico genere. Una sezione del museo è riservata alla mostra di antiche ceramiche, manufatti litici e strumenti metallici trovati nell’area di diffusione delle statue-menhir durante le ricerche archeologiche.

In sintesi, il Museo di Laconi è un tesoro di storia antica e simbologia funeraria che offre al visitatore l’opportunità di immergersi completamente nel mondo affascinante dell’Età del Rame e scoprire il significato di simboli e immagini di un’epoca passata.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Sabato, alla libreria Koinè di Sassari, è stata presentata la raccolta poetica dell’artista e poetessa lanuseina Stefania Lai “Nel tempo gigante”, Robin Edizioni.

Quella sassarese è stata la quarta presentazione del libro. La prima si è svolta ad Assisi, in sala conferenze alla Cittadella, la seconda ad Alghero, alla libreria Cyrano. La terza presentazione è stato un incontro prezioso e intenso con il pubblico alla biblioteca di quartiere Bibliolab, all’interno dell’Istituto comprensivo Latte Dolce Agro a Sassari.

La presentazione alla libreria Koinè, ha visto Stefania Lai dialogare con l’amica e poetessa Speranza Serra, donna e sorella di talento, profonda conoscitrice e studiosa di poesia e letteratura e con il collettivo CLIP, un gruppo di giovani performers, attori e autori che attivamente portano cultura e parole nella loro città ed oltre.

«Non è stata la semplice presentazione di un libro di poesia – spiega Stefania Lai – Il numeroso pubblico presente, non solo in questa occasione, ha conversato con noi restituendoci la sensazione di una poesia sempre più necessaria nella contemporaneità. Si è parlato della mia poesia, ma non solo, anche di poesia come strumento per una nuova comprensione dell’esistenza, come preziosa fonte di stimolo ad una relazione più umana col pianeta.  Si è parlato di Rilke, Tagore, Szimborska e delle poete, sempre più numerose, dalla lirica potentemente suggestiva. Di una poesia che a volte spaventa perché sa muovere l’animo, di quella passata a voce dalle donne ai propri figli e compagni, della poesia muscolare, l’Action Poetry, della poesia che cura, che porto, come arteterapeuta, a chi vuole implementare ed arricchire la propria crescita personale, a chi vuole conoscere di sé gli spazi emotivi e creativi».

«Si è parlato di reti di salvezza tessute insieme, che ci sostengono come solo l’arte sa fare in questi tempi “giganti” di schiaccianti richieste , in cui dobbiamo essere performanti, di successo, freschi, in forma, esteticamente apprezzabili, mentre perdiamo la nostra autenticità e dimentichiamo cosa ancora ci fa felici» conclude l’artista e poeta ogliastrina.

La raccolta poetica di Stefania Lai porta il racconto di questo tempo “gigante” nel quale scoprire il minuscolo, l’anima e lo sguardo oltre le cose ci salva da una realtà gravosa e ci riporta al gruppo, all’insieme, ci racconta che “siamo” è la parola giusta per definirci, e ci descrive connesse e connessi a tutto il pianeta in divenire. Ci ricorda come “vivere poeticamente il mondo”. La poesia dunque, questo linguaggio colmo di simboli, di immagini spesso radicate così profondamente da arrivare alla profondità di chiunque, non si limita alle pagine di un libro, ma entra nella vita delle persone, diventa un pane buono, a nutrire ogni fame di senso.

Interessante la considerazione di Speranza Serra: «Questa dimensione meravigliosamente comunitaria, di chiunque, è quella che si può raggiungere quando ci si incontra nel dialogo attraverso le arti. Questo è successo sabato, che molte persone si sono incontrate ed hanno scoperto di essere parte di un tessuto umano che può usare la poesia e le arti come linguaggio preferenziale per esprimere verità profonde e salvifiche».

Queste presentazioni, o meglio “questi incontri di poesia” hanno smosso emozioni e riflessioni; hanno provocato dei veri “accadimenti’  fra le persone: le donne soprattutto hanno agito da “facilitatrici” presso i loro compagni leggendo i testi a voce alta nell’intimità della casa.  E appunto l’ oralità della poesia è stato un tema di discussione molto partecipato nel tentativo di dare risposte alle domande: quando ci siamo allontanati dalla poesia? Da quando ne abbiamo così paura? Forse da quando i versi sono stati rinchiusi in tomi nelle accademie, destinati a poche elite? .

Forse da quando abbiamo perso il coro e il canto collettivo. Da questi incontri è scaturito forte e chiaro il bisogno della parola poetica. Come una sete misconosciuta che finalmente trova fonte.

Una poesia di Stefania Lai:

Non appartengo a nessuno
Neanche a me stessa
Quando mi lego le scarpe sono altrove
e spesso trascuro un sano respirare
mi dimentico del cuore se batte
e non so se il sangue va
o torna alla camera oscura
Non è affatto mia la mia persona
per troppo tempo infatti
sono via
Impegnata a tracciare
brandelli di ricordi sfilacciati
sensazioni da decifrare
parole sfumate al silenzio
Nascosta nel corpo
a tessere reti di salvezza
per il corpo e per me stessa
per noi sorelle di carne e pensiero
da ricucire sui bordi
rianimare e gettare nel mondo.

L’articolo La poesia di Stefania Lai arriva a Sassari: presentazione di “Nel tempo gigante” proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Se vi siete imbattuti nelle feste popolari tipiche sarde come quella di Sant’Efisio a Cagliari o la Cavalcata di Sassari, avrete sicuramente notato i classici indumenti, riconoscibili nei tratti caratteristici come i colori, i tessuti e lo stile particolare dei vari “componimenti”. Si possono ammirare anche nei diversi musei etnografici della Sardegna.
Ma, come nasce questa tradizione e quali storie si celano dietro gli abiti?
Scopriamolo insieme!

Il costume sardo, diverso per ogni località, indicava la provenienza di chi lo indossava, esaltando l’estrazione e lo stato sociale. Ogni costume era adatto per particolari occasioni: quelli più originali ed elaborati per le feste, più semplici per tutti i giorni, diversi per i ricchi e per i poveri, per le donne sposate, per le nubili e per le vedove.
Nonostante i costumi sardi siano tutti particolarmente elaborati e variopinti, la differenza tra uomo e donna era notevole anche in questo aspetto: colorati e sgargianti per le donne, più severi quelli degli uomini.

L’attività tessile nella nostra regione risale all’Età del Rame e fortunatamente sono ancora tante le testimonianze arrivate fino ad oggi dall’epoca romana. Tra i materiali utilizzati per la realizzazione degli abiti sardi, il più originale è il broccato: un tessuto pregiato che ha origine nel 300 d.C. in Asia. I diversi colori del broccato, nell’abito sardo, rappresentavano una determinata fase della vita.

Sugli abiti sardi si possono individuare le influenze dei popoli invasori del passato: ogni comunità infatti può contare su un proprio vestito tradizionale diverso da tutti gli altri.
La realizzazione non è semplice e il lavoro degli artigiani veniva tramandato da generazione in generazione.Il vestito tradizionale delle donne può contare sulla cuffia, una camicia sempre di colore bianco e il corsetto che può essere di diversi tagli. Per decorarlo ulteriormente si usava “sa sabeggia” un amuleto donato ai neonati che veniva portato per tutto il corso della vita.
“Su sciallu” (lo scialle) solitamente nero o marrone, veniva arricchito con motivi floreali.

Per quanto riguarda il costume maschile, invece, abbiamo: la camicia,  i pantaloni di lino bianco, il gilet, il berretto, la giacca.
Del costume può far parte anche la mastruca, grande cappotto di lana con pelle di pecora. Questo indumento ha una storia particolare: si tratta di una veste di pelle lanosa; Cicerone definiva i sardi come “latruncoli mastrucati” e questo riferimento era collegato alla convinzione che il popolo sardo era riuscito a non farsi mai sottomettere del tutto dai romani.

Altro elemento molto particolare è sicuramente “sa Berritta”: il copricapo di forma cilindrica in panno nero (a volte anche rosso), che aveva all’interno un taschino per il tabacco o il pettine.
Infine, “su saccu nieddu”: la mantella dei pastori, porcari e caprai, era uno scaccia acqua e li proteggeva durante i temporali.

Davide Gratziu, giovane illustratore e grafico di Cagliari, ha dedicato delle sue opere a questo argomento, studiando nei minimi dettagli le caratteristiche di ogni indumento. Ci mostra quindi degli esempi di questi meravigliosi abiti, raccontandoci il suo modo di immaginare le donne e gli uomini di quell’epoca.

 

“Trittico donna in abito sardo”.
Siamo donne, siamo madri, siamo sorelle e siamo unite.
Siamo la forza che porta avanti la famiglia, la corazza della casa e della società.

 

 

“Uomo in abito sardo.”

Ogni mattina mi sveglio alle 4.
Ho la mia routine. Seguo il pascolo, passeggio per le mie terre.
Assaporo il profumo della natura che mi circonda.
Arricchisco la mia anima con l’essenza delle nostre tradizioni.
Sono un uomo.
Sono un pastore.
Sono un amante della natura.
Sono sardo.

 

“Donna sarda mosaico”.
Una folata di vento mosse il mio velo.
Ero bellissima. Usavo l’abito di mia madre. Sembrava cucito sulla mia pelle. Strati di tessuto raffinato, gioielli che illuminano il mio viso e mi rendevano fiera delle mie tradizioni.
Passeggiavo per il mio paese.
Mi sentivo come in un limbo nel tempo.
Ero avvolta dalla storia dei miei avi e dal futuro dei miei figli.

Sono qui ora, lo sono sempre stata e ci sarò per sempre. 

L’articolo Tutte le curiosità sugli abiti tradizionali sardi. La parola all’artista Davide Gratziu proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

La storia del carcere di Castiadas ebbe inizio, per volere di Eugenio Cicognani, nel 1875 in un periodo dell’anno che somigliava all’inferno. Ma i condannati ai lavori forzati, in fila con i loro carcerieri, sbarcarono lo stesso sulla spiaggia di Cala Sinzias. La loro fatica sarebbe stata enorme: doveva sorgere il carcere agricolo più grande della Sardegna e dell’intera Italia e non c’era tempo da perdere.

Mano a mano che il tempo passava, altri detenuti furono trasferiti a Castiadas per contribuire ai lavori. Il carcere era dotato di una falegnameria, un’officina meccanica, una farmacia, una stazione postale, una officina dei fabbri e una stazione telefonica. L’area intorno al carcere venne bonificata e avviata alla coltivazione di ogni sorta di colture agricole come cereali, legumi, frutta e verdura, servite non solo a sostentamento dei reclusi e del personale, ma anche a fini commerciali. Inoltre, il carcere di Castiadas divenne famoso per la produzione di carbone. Il compenso dei detenuti era determinato dal tipo di lavoro svolto.

Il carcere resistette fino al 1952, ma non fu certo un posto lieto: molte persone decisero di porre fine alla loro vita piuttosto che sopportare le dure condizioni del carcere.

Oggi, però, il vecchio carcere è stato recuperato e trasformato in una meta turistica, soprattutto in primavera quando la zona non è ancora presa d’assalto dai turisti e la temperatura è mite. Nel 2015, l’opera di recupero ha riguardato la casa del direttore, le scuderie e un’intera ala del carcere.

L’articolo Lo sapevate? Un tempo a Castiadas c’era uno dei carceri agricoli più grandi d’Italia proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi