Nella notte tra il 5 e il 6 marzo del 1945, nei pressi del Santuario Valma, zona Val Varaita, sotto il Monviso, veniva ucciso dai fascisti Francesco Salis, un partigiano jerzese di 24 anni.

Francesco Salis era primo di nove fratelli, figlio di Antonio e di Rosa Serra. A Jerzu aveva studiato fino alla quinta elementare e in seguito si era formato alla scuola del maestro di sartoria Luisiccu Carta. Lasciò presto la famiglia e partì alla volta di Firenze, dove diventò radiotelegrafista. In seguito si trasferì a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Nel 1940, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, nella confusione generale di quegli anni, si ritrovò in Piemonte, a Verzuolo, dove grazie alla sua passione per il cucito, trovò da lavorare in una fabbrica di un ingegnere, titolare di alcune filande. In quell’ambiente Francesco Salis si trovava bene, svolgeva un lavoro che amava ed era stimato dai titolari. Nel 1943, con l’armistizio di Cassibile con il quale il Regno d’Italia cessava le ostilità verso gli Alleati e dava inizio alla resistenza italiana, Salis si rese conto della tragedia che aveva creato il nazifascimo. Così, come tanti altri eroi della Resistenza italiana, decise di “salire in montagna per aiutare i rossi” e di organizzare un gruppo compatto. In quel periodo il movimento partigiano era ancora sulla difensiva ed era organizzato solo in piccoli gruppi isolati e impotenti. Il gruppo del Salis era invece il più compatto e per questo motivo venne inserito nel distaccamento “Giuseppe Bottazzi”, considerato come uno dei più risoluti contro la dittatura. Alla fine del 1944,  nel Santuario dedicato alla Madonna della Misericordia, nel comune di Valmala, si insediò  il distaccamento “Giuseppe Bottazzi”poi ribattezzato “Comando” della 181 brigata Garibaldi. Francesco Salis ne faceva parte.

Il 4 marzo del 1945 nella sede del distaccamento si trovavano solo una quindicina di uomini in quanto molti compagni erano stati messi in libertà in attesa di un’insurrezione. Nella notte tra il 5 e il 6 marzo scattò il rastrellamento da parte della 4 Divisione alpina “Monterosa” dell’esercito della Repubblica sociale italiana (la Repubblica di Salò esistita tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 guidata da Mussolini e voluta dalla Germania nazista).

Una pattuglia della 4 Divisione alpina “Monterosa” attraversò il villaggio di Brossasco e giunse al santuario in mezzo ai boschi. La zona era coperta di neve e vi erano 15 gradi sotto zero. I partigiani erano tutti giovani, avevano tra i 22 e i 27 anni: Ernesto il comandante, Abete, contadino, Giorgio, uno studente, Gabri, Ercole, Dado, Cirillo, Ivan, Edelweis, Pierre,Sander, Pistola, Tigre e Salis, conosciuto da tutti come Ulisse.  Uditi i primi colpi di artiglieria i garibaldini evacuarono la propria sede dopo essersi divisi in tre gruppi: otto cercarono di fuggire dal lato est puntando al colle di Valmala, altri ad ovest e gli ultimi cinque in fuga verso il colle.  Ma appena usciti, un tremendo fuoco incrociato si rovesciò su di loro. Il primo a morire nei pressi del pilone votivo fu proprio Francesco Salis, ucciso con una raffica in pieno volto. A lui seguirono Giorgio, lo studente e a pochi metri sulla neve una carneficina.

Francesco Salis morì così.

Anni fa il suo paese natale ha voluto rendergli omaggio intitolandogli una via del centro storico.

 

Informazioni tratte da Giacomo Mameli: “Il garibaldino Ulisse l’Ogliastrino nei luoghi raccontanti da Fenoglio”

Sito internet http://www.sentieriresistenti.org/ “Luoghi e segni di memoria tra il rifugio Bertorello e Sampeyre”

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 Jerzu 12  


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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Questo pomeriggio a Villagrande sono stati abbattuti 101 maiali allo stato brado e non registrati.

Si legge in un comunicato diramato dalle autorità: “Si sono concluse le operazioni di ricerca, cattura e depopolamento di suini bradi illegali nelle terre pubbliche di Villagrande, dove sono stati abbattuti 101 suini, non registrati all’anagrafe zootecnica, privi di proprietario e di controlli sanitari.

Si tratta di attività che rientrano nelle azioni di contrasto al virus della Psa (Peste suina africana) e nella lotta all’allevamento illegale dei suini, uno dei maggiori fattori di rischio per la permanenza del virus in quei territori.

È ormai evidente che questo tipo di animali costituisce la vera cinghia di trasmissione del virus tra la popolazione selvatica e gli animali domestici.

L’appello della Regione e dell’Unità di progetto è rivolto nuovamente ai pochi che ancora esitano a mettersi in regola, soprattutto nelle zone dove l’eradicazione del virus potrebbe costituire un volano straordinario per il rilancio del comparto, in particolare quello della salumeria di qualità. In quei territori sono già in corso alcune virtuose iniziative di valorizzazione dei prodotti a base di carne suina, così da preparare il rilancio del comparto.

Dopo che il recente report della Commissione europea ha confermato la bontà del lavoro che si sta facendo in Sardegna nella lotta alla Psa, la Regione attende lo sblocco dell’export come riconoscimento degli enormi progressi fatti”.

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

Catalina Lay era una levatrice seuese del 1500, in “Limba” una “maista de partu”, che fu arrestata dall’Arcivescovo di Cagliari con l’accusa di essere una strega e successivamente processata a Sassari.

Fu una donna che pagò a caro prezzo le sue competenze e la sua abilità nel coadiuvare le donne nel parto, così come le conoscenze tramandate da generazione in generazione sull’uso dei medicamenti naturali e il potere degli antichi “abrebus” (le parole proibite dei riti magici religiosi).

Infatti non era raro che all’epoca fossero perseguitate le levatrici, bastava un’accusa ingiustificata mossa da chiunque per portare una di queste davanti al giudice inquisitore.

In un’epoca nella quale la mortalità infantile era molto alta, le capacità di Catalina erano rispettate e temute allo stesso tempo, quasi potesse avere un invisibile potere di vita o di morte sul nascituro.

Sulla vita della levatrice di Seui non si hanno molte notizie, solo che fosse una donna di mezza età e avesse dei figli. Si ritrovò a Sassari tra il 14 o 15 agosto del 1583 ad ascoltare la sua condanna a sei anni di reclusione, duecento frustate e altre terribili pene. Insieme a lei nella piazzaCarra Manna” (oggi Tola) altre otto povere donne condannate per reati di stregoneria, e umiliate davanti ad un’immensa folla.

Catalina aveva confessato tutto nei giorni precedenti dopo indicibili torture, confermando ogni parola delle accuse mosse dai suoi aguzzini. Confermò di avere legami con spiriti sovrannaturali, di incontri con il diavolo durante la notte e di partecipare a riti propiziatori in determinate località del paese.

Il maligno le sarebbe apparso con varie sembianze umane e animali, e inoltre più volte si sarebbe concessa carnalmente a lui.  Sarebbe stato il diavolo a spingerla ad uccidere i neonati, che soffocava premendo con il pollice sotto il mento, facendo pensare fossero nati morti.

Confessò anche di introdursi durante la notte nella stanza dei bambini, che avrebbe prima soffocato e dai quali succhiava il sangue per poi miscelare con altre sostanze per realizzare degli unguenti per riti magici.

Tra questi una pozione che le avrebbe permesso di trasformarsi ed entrare nelle case delle piccole vittime.

Dopo l’autodafé a Sassari, la cerimonia pubblica nella quale fu eseguita la penitenza e decretata la condanna, non si hanno più notizie di Catalina. Pertanto si è all’oscuro se sia riuscita a sopravvivere agli anni di carcere. Così come è avvolto nel mistero se abbia o meno fatto ritorno al suo paese, dove furono confiscati tutti i suoi beni.

A Seui la tragica vicenda umana della levatrice non è stata dimenticata, e nel percorso museale Sehuiense gestito dalla locale Cooperativa S’Eremigu, le è stata dedicata una sezione in “S’Omu ‘e Sa Maja”. L’edificio storicamente documentato della fine del 1600, nel quale fu scoperta una testimonianza di magia bianca, ospita varie collezioni museali legate al mondo magico religioso e alle antiche tradizioni precristiane della zona.

Un atto di giustizia per tenere viva la storia di Catalina, affinché non venga reciso il filo della memoria di tante donne vittime dell’Inquisizione, passate alla storia come streghe.

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

In questo scatto, gentilmente concesso da Massimo Mulas, alcuni giovani tortoliesi al mare negli anni 50. 

Invia le fotografie più belle del passato ogliastrino ( indicando luogo e data in cui le foto sono state scattate) alla nostra mail redazione@vistanet.it

( indicando nell’oggetto la dicitura “come eravamo”).

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

Arbatax, Porto Frailis, mercoledì 13 aprile 2022.

Una bellissima giornata quella di oggi in Ogliastra, anche se un po’ ventosa.

In questo video lo spettacolo del mare mosso dalle onde nella bellissima spiaggetta tortoliese.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

Se la “canadese” solo a Cagliari e nel Sud Sardegna significa “tuta da ginnastica” e l’“andito” è una parola dell’italiano antico che solo nell’isola viene ancora utilizzata frequentemente per indicare il corridoio, sono tante anche le espressioni e i modi di dire che noi sardi utilizziamo come se fossero parte del lessico italiano, ma non lo sono.

Quando d’estate ci capita di parlare con un turista di Venezia o di Bologna, capiamo che molte di queste espressioni non sono altro che storpiature della lingua di Dante oppure traduzioni letterali dal sardo all’italiano.

Ecco a voi i 10 modi di dire che sembrano italiano, ma non lo sono.

Modi di dire Sei solo simpa – Foto di Hanno Detto così

1) Non fa. «Ti ho detto che non fa!» dice una severa mamma cagliaritana al proprio figlio in vena di capricci. Quando “non fa”, “non fa”, noi sardi lo sappiamo bene. Un qualsiasi amico di Perugia o di Ferrara dopo che avremo rimproverato i nostri figli capricciosi ci chiederebbe «Chi è che non fa e cosa non fa?». Questa espressione che nell’uso comune fatto in Sardegna significa che un qualcosa non si può fare, in italiano non esiste. Con ogni probabilità si tratta di una libera traduzione dal sardo campidanese “No faidi”.

2) “Dire Cosa”. «Eh, poi gli ho detto cosa!». Anche qui siamo nel campo dei rimproveri, ma si tratta di un biasimo molto più diretto e immediato. “Dire cosa a qualcuno” significa semplicemente rimproverare. Sappiate però che a un amico di Pordenone, più che “dirgli cosa”, al massimo gliene dovrete “dire quattro”.

3) “Solo bello”. «Hai visto quel giubbotto? Sì, è solo bello!». Accostare l’aggettivo solo, che di norma in italiano ha un’accezione negativa, a un altro aggettivo in funzione rafforzativa è una tipica inflessione cagliaritana. Infatti nel capoluogo e nell’hinterland dire che qualcosa è “solo bello”, “solo brutto” o “solo togo” (tralasciamo la ovvia spiegazione sul fatto che anche “togo” è puro slang cagliaritano), equivale a dire che qualcosa è “molto bello”, “molto brutto” o “molto togo”. Un romano, sentendo questa espressione, penserebbe di trovarsi di fronte non tanto a un rafforzativo quanto a un’attenuazione della qualità o del difetto indicati.

Modi di dire Sei solo toga – Foto di Hanno detto Così

4) “Non vuole visto”. Quando qualcuno utilizza questo costrutto, se siamo sardi, sappiamo già che la persona o l’oggetto in questione esteticamente non è proprio il massimo. In questa speciale occasione il verbo “volere” regala all’espressione la massima sintesi, sia in termini di numero di parole utilizzate sia in termini di efficacia del significato.

5) Il “cofano”. Avete mai provato a dire a un vostro amico di Milano di mettere le valigie nel cofano? Bene se lo avete fatto saprete già che solo in Sardegna il termine “cofano” è più utilizzato per indicare quello che in italiano è comunemente chiamato “bagagliaio”. In origine la parola indicava i mobili d’arredo della grandezza di una cassa, dotati di grande coperchio apribile e in cui riporre corredi nuziali o oggetti per la casa. Con l’invenzione dell’automobile la parola assunse un secondo significato, cioè il vano anteriore della macchina in cui sono contenuti il motore e le altre parti meccaniche.

6) “Accozzato”. Voce del verbo “accozzare”, vocabolario Treccani: «Mettere insieme in modo disordinato persone o cose: accozzare uomini e donne di età diversa; non riesco ad accozzare le idee; accozzare le carte, mettere insieme quelle dello stesso seme» oppure nella forma transitiva e riflessiva «Incontrarsi, imbattersi, riunirsi insieme, detto di persone o cose». In Sardegna invece il verbo accozzare è diventato sinonimo perfetto della parola italiana “raccomandare”. Dire che qualcuno è “accozzato”, nell’isola, non ha mai un’accezione neutra, anzi.

7)”Mischino”. È bastato un cambio di vocale per trasformare una persona spregevole, immorale o in senso più largo da commiserare, in una persona degna di compassione. Tra la parola italiana “meschino” – non a caso molto poco utilizzata in Sardegna – e la parola “mischino” c’è un intero spettro di giudizi etici e morali. A qualche sardo sarà sicuramente capitato di sentire in radio o in televisione la parola “meschino” per pensare subito nella propria testa «mischino? Perché poverino?». Bene, il malinteso è svelato.

8) “L’hai fatta bella”. “Farla bella” in Sardegna significa combinare qualcosa di brutto o, in tono più goliardico, fare qualcosa di particolarmente compromettente per sé stessi, come ad esempio sposarsi. La spiegazione di questo utilizzo è molto semplice: si tratta di una traduzione letterale dell’espressione “E gi d’as fatta bella”, diventato ormai l’inno ufficiale degli addii al celibato in Sardegna.

9) “Sbrodare”. «Sporcare con brodo o untume, sbrodolare», il dizionario Garzanti riporta solo questo regionalismo toscano alla voce “sbrodare”. In realtà un altro utilizzo è quello che se ne fa in Sardegna, stante a indicare il momento in cui è finita la benzina del nostro scooter o della nostra auto.

10) «C’ho brutta voglia». Per capire che questa espressione esiste solo in Sardegna bisogna usarla una volta partiti da studenti fuori sede o in Erasmus dopo una notte di bagordi davanti al proprio coinquilino di Pordenone o di Foggia. «Brutta che?», vi risponderanno. Trattasi infatti di un adattamento dal sardo dell’espressione “gana mala”, che significa, come saprete certamente, nausea.

E voi ne conoscete altre?

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

L’ossidiana è senza dubbio uno dei minerali più belli e suggestivi presenti in natura. Si tratta di  un vetro vulcanico formatosi nel processo di raffreddamento rapido della lava.

Foto del Museo dell'Ossidiana di Pau

Foto del Museo dell’Ossidiana di Pau

È composto al 75% da biossido di silicio ed è noto per la sua colorazione nera-grigio scura lucida con venature biancastre e dalla superficie liscia e levigata. Le forme sono variegate ed è facilmente lavorabile.

La Sardegna – nonostante non abbia la nomea di “terra vulcanica” – possiede al suo interno il più vasto giacimento di ossidiana del Mediterraneo. Si trova in una zona di antichissima origine vulcanica, quella di Monte Arci, nella parte meridionale dell’oristanese, tra i comuni di Pau, Ales, Masullas, Marrubiu e Morgongiori.

Foto del Museo dell'Ossidiana di Pau

Foto del Museo dell’Ossidiana di Pau

L’ossidiana ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della Sardegna prenuragica e nuragica. Le popolazioni isolane commerciavano questo materiale con il resto del mondo e producevano manufatti arrivati fino ai giorni nostri tra cui armi, gioielli e altri monili preziosi. Si ha notizia di manufatti risalenti fino al 5.000 a.C, a testimonianza della lunghissima tradizione e del rapporto millenario dei sardi con questa pietra.

Foto del Museo dell'Ossidiana di Pau

Foto del Museo dell’Ossidiana di Pau

Nei comuni del Monte Arci si trova un vero e proprio parco dell’ossidiana in cui ammirare dal vivo questo straordinario minerale. A Pau è aperto un bellissimo Museo dell’ossidiana che racconta ai visitatori la storia affascinante di questa pietra. La visita è particolarmente consigliata.

Foto del Museo dell'Ossidiana di Pau

Foto del Museo dell’Ossidiana di Pau

Foto del Museo dell'Ossidiana di Pau

Foto del Museo dell’Ossidiana di Pau

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

Ulisse, il piacere della scoperta, dedica una puntata alla Sardegna. Lo rende noto la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari.

Alberto Angela condurrà i telespettatori in una Sardegna insolita, lontana dalle mete turistiche più conosciute. Un viaggio in una terra unica, alla ricerca dei colori, dei suoni, degli odori e dei segni che la caratterizzano.

Il colore del mare e della pietra. Il suono del vento e delle voci. L’odore del cisto e dell’elicriso. I segni delle tante civiltà che di volta in volta l’hanno invasa, senza mai dominarla.

Un’isola che è quasi un continente. Dalle spiagge della Maddalena e dell’Asinara alle miniere del Sulcis, dalle pietre dei nuraghi alle vestigia romane, dalla basilica di Saccargia alle mura di Alghero, il nostro sarà un racconto punteggiato da storie, tradizioni, leggende che fanno di questa terra un luogo magico e misterioso.

Alberto Angela in Sardegna - Foto di Barbara Ledda

Alberto Angela in Sardegna – Foto di Barbara Ledda

Alberto Angela in Sardegna - Foto di Barbara Ledda

Alberto Angela in Sardegna – Foto di Barbara Ledda

Il celebre conduttore incontrerà la sua gente, ascolterà la sua lingua così particolare e farà riempire gli occhi del pubblico a casa del colore di un mare incredibile.

Il grande viaggiatore inglese Herbert Lawrence così la definì: “La Sardegna è un’altra cosa… Creste di colline come brughiera…che si vanno perdendo, forse, verso un gruppetto di cime… Incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definitivo. E’ come la libertà stessa”. Ecco la Sardegna è davvero un’altra cosa.

Alberto Angela in Sardegna - Foto di Barbara Ledda

Alberto Angela in Sardegna – Foto di Barbara Ledda

Alberto Angela in Sardegna - Foto di Barbara Ledda

Alberto Angela in Sardegna – Foto di Barbara Ledda

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

È un ritorno con il botto quello di Pasqua per gli agriturismi Campagna Amica/Terranostra che in molti casi sono quasi sold out confermandosi tra i luoghi preferiti per il dopo Covid grazie ai menù contadini e agli spazi ampi a contatto con la natura.

Nel 2020 e nel 2021 gli agriturismi rimasero chiusi per le festività Pasquali a causa del Covid. Quella dello scorso anno – ricorda Coldiretti Sardegna – fu una vera doccia fredda, perché furono chiusi per due settimane proprio a cavallo della Pasqua, dopo che la Sardegna fu la prima Regione ad andare in zona bianca, causando perdite che Coldiretti Sardegna stimò in 1milione di euro per i 150 agriturismi Campagna Amica/Terranostra. Perdite che si sommarono a quelle delle festività natalizia appena concluse e a tutto il 2020.

Nell’anno dello scoppio del Covid (2020) le presenze nei circa 900 agriturismi sardi crollarono del 44% rispetto al 2019, secondo le elaborazioni Coldiretti Sardegna sui dati dell’Osservatorio del Turismo regionale, registrando 82mila presenze rispetto alle 146.500 dell’anno prima.

Pasqua è la porta per la nuova stagione e se le premesse sono queste rappresenta una vera e propria primavera dopo due anni neri in cui le perdite sono state ingenti.

I 150 agriturismi a marchio Campagna Amica/Terranostra, circa un terzo di quelli soci Coldiretti, dal Nord al Sud dell’Isola, stanno ricevendo in questi giorni tante prenotazioni che stanno addirittura migliorando la stagione del 2019, culmine di un trend positivo che andava avanti da anni, bruscamente interrotto dalle limitazioni adottate dal Governo per il Covid.

Ad essere premiata è la natura stessa degli agriturismi che portano in tavola le ricette della tradizione con i prodotti aziendali, oltre agli ampi spazi in campagna a contatto con la terra e gli animali.

“La quasi totalità dei clienti – sottolinea la presidente di Terranostra Michelina Mulas – sono sardi, famiglie e gruppi di amici che in molti casi decidono anche di pernottare e trascorrere in agriturismo il fine settimane e Pasquetta, usufruendo anche dei tanti servizi che oggi offrono molte strutture Campagna Amica come passeggiate nei boschi, la possibilità di visitare e provare la vita da contadino con i laboratori della pasta, del latte e di tutte le attività che si svolgono nelle aziende agricole”.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

È la pistola dei cowboy, quella dei film western. Storicamente è legata al nome dell’inventore americano Samuel Colt, che brevettò la pistola a tamburo, detta revolver in inglese o rivoltella in italiano, nel 1836.

Pochi sanno però che la prima vera pistola a tamburo fu inventata a Gadoni, in Sardegna.

Francesco Antonio Broccu, inventore dal multiforme ingegnò, costruì la prima rivoltella nella sua Gadoni nel 1833, ben tre anni prima del collega americano Samuel Colt, che però ebbe il merito di registrarla all’ufficio brevetti assicurandosi così una rendita milionaria per lui e per i suoi discendenti. L’invenzione di Antonio Broccu, nato a Gadoni nel 1797, incuriosì non poco anche il re di Sardegna Carlo Alberto.

Broccu qualche anno dopo fu invitato a tenere un corso sul funzionamento della pistola a Cagliari ma rifiutò l’invito per lo stesso motivo per cui non brevettò la sua invenzione: troppo l’amore per la sua Gadoni che non volle mai lasciarla.

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda