Un equilibrio sempre precario e altalenante quello tra oppressi e oppressori, su questo equilibrio si basa il mondo, dal passato ad oggi, con le sue grandi rivoluzioni e grandi cambiamenti che tutti abbiamo studiato fra i banchi di scuola. Ma la storia non è fatta solo di grandi eventi, questi spesso hanno avuto luogo grazie alla volontà dei singoli, dalle spinte provenienti dalle piccole realtà. Questo è proprio ciò che successe nel lontano 8 settembre 1943 ad Ilbono.

Il regime fascista era ormai vicino al capolinea, il decentramento del potere centrale svelava tutte le sue debolezze come assenza di controlli, l’arbitrio dei suoi funzionari e questi limiti ad Ilbono si sono rivelati lampanti. Tale Sparaccini, inviato come segretario comunale dal regime, era un “continentale” o come si diceva a quei tempi “unu chi benit dae su mare” (uno che viene dal mare) spesso “po furai” (per rubare) che esercitava i suoi poteri in un contesto in cui nel paese erano presenti solo donne, bambini ed anziani.

Gli uomini, che all’epoca garantivano il maggior sostegno economico alle famiglie, si trovavano tutti al fronte o al confino, la fame dilagava e i viveri, già scarsi per la mancanza di braccia per l’agricoltura, venivano requisiti per essere inviati ai soldati. Il segretario del Comune di Ilbono privava le donne delle poche derrate inviate dallo stato per rifornire la propria dispensa personale nella residenza di Elini, provocando l’ira e il malcontento generale. Dopo le verifiche effettuate dai soldati, il vaso di Pandora fu aperto e le nefandezze commesse dal pubblico funzionario furono portate alla luce.

Una donna del paese Giulia Floreddu, allora incinta della sua secondogenita Rosa, il cui marito Gino Mameli, era stato arruolato come aviere fotografo presso l’aeroporto di Elmas, incitò e guidò una rivolta contro l’oppressore culminata con la sua cacciata. Un’azione eversiva che certamente varcò i confini della legalità, ma eticamente legittimata dal bisogno di sopravvivenza, non tanto per sé stessa, quanto per chi come lei vedeva ricadere sulle proprie spalle il peso di un’intera famiglia e indirettamente di un’intera comunità.

Giulia riuscì ad organizzare un nutrito gruppo di madri di famiglia e non solo che, nonostante fossero stremate e affamate, riuscirono a far desistere il segretario e a riottenere quanto gli spettava: quella scarsa quantità di cibo destinata in egual misura a tutti i cittadini e che in minima misura avrebbe alleviato le sofferenze della carestia, amplificata dall’isolamento, che il secondo conflitto mondiale provocava in particolare in ogni angolo della Sardegna.

Le rivoltose furono arrestate e recluse nella prigione di San Daniele a Lanusei secondo quanto previsto dalle leggi vigenti all’epoca. Mentre il procuratore del Re annunciò la liberazione di Giulia in quanto incinta, la convinzione e determinazione della “partigiana” come fu definita da alcuni compaesani, non si fece attendere: rifiutò di essere liberata se non insieme alle altre donne: “o totus o manc’una” disse, che significa “o tutte o nessuna”. Fu solidale con le sue compagne e restò reclusa per un mese per non abbandonarle.

«È come se avessi partecipato anche io alla rivolta», racconta Rosa Mameli, la figlia che Giulia portava in grembo mentre si trovava in carcere, «in fondo non avevo altra scelta. Quando ho appreso la vicenda mi sono sentita molto orgogliosa perché mi sono resa conto dell’intraprendenza di mia madre vista la precarietà in cui versava la mia comunità in quel periodo. Le donne, che spesso vengono erroneamente indicate come il sesso debole, in realtà hanno sempre avuto la capacità e la forza di risolvere i piccoli e grandi problemi della vita. Le vicende che hanno coinvolto mia madre, sono la prova che le donne possono farcela da sole, anzi, proprio da sole e nelle situazioni più difficili riescono a dare il meglio, ad essere solidali tra loro riuscendo a produrre grandi cambiamenti.»

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Il racconto di un pastore che vuole abbandonare la sua terra ma, abbagliato dalla sua stessa luce, chiede di esservi pietrificato.

Perdu voleva abbandonare la Sardegna attraversando il mare, nella speranza di una vita migliore. La madre, Mariancani, lo scongiurava di non farlo, cercando di mostrargli la bellezza dei luoghi che si accingeva a lasciare, forse per sempre. In particolare la madre ebbe cura di descrivergli i luoghi più suggestivi come Cala Ginepro, l’insenatura di Santa Maria Navarrese, Monte Tricoli. Perdu però non voleva sentire ragioni.

Un giorno, recatosi presso le pendici del Monte Tarè, tra i comuni di Ilbono e Loceri, cercava di scrutare la nave in arrivo a Capo Montesanto (imbarcazione rappresentata dall’Isolotto d’Ogliastra), che gli avrebbe fatto solcare il Mar Tirreno; qui Perdu fu pervaso da un abbaglio, quello che spesso si può vedere nei pomeriggi estivi dalle colline che si affacciano sulla costa e, nel vedere la sua terra sotto una luce diversa, più ampia, capì che stava commettendo un grosso errore. S’inginocchiò e chiese perdono.

La madre stanca e straziata, non sarebbe riuscita a reggere la fatica di tutti quegli accadimenti, e distrutta dalla stanchezza per aver rincorso il figlio, stette in piedi immobile consapevole che la sua ora stava per giungere inesorabile. Perdu chiese di essere pietrificato proprio in quel punto, insieme alla madre, così da stare insieme per sempre.

Così successe secondo la leggenda, infatti, durante le notti di luna piena è possibile ammirare le due figure antropomorfe in porfido rosso, in particolare una Mariancani sorridente, perché come ultimo ricordo visivo aveva il mare di Arbatax e quella nave che il figlio, ormai, non avrebbe preso mai più.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

In Sardegna si registrano oggi 1160 ulteriori casi confermati di positività al COVID (di cui 1005 diagnosticati da antigenico). Sono stati processati in totale, fra molecolari e antigenici, 9141 tamponi.

I pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva sono 21 ( +2 ).

I pazienti ricoverati in area medica sono 317 ( -14 ).

29798 sono i casi di isolamento domiciliare (+36).

Si registrano 3 decessi: una donna di 58 anni, residente nella provincia di Oristano; 1 uomo di 69, residente nella Città Metropolitana di Cagliari, e un uomo di 82 anni, residente nella provincia di Sassari.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

Che la Sardegna sia uno scrigno misterioso e ricco di affascinanti tradizioni ancestrali è cosa ormai nota. Simboli e particolari rituali, qui, sono sorti al principio della storia dell’uomo, nati per propiziarsi antiche divinità e per celebrare ricorrenze che, con il sacro dei tempi moderni, hanno poco a che fare. Vecchi di millenni, tali elementi si ritrovano ancora oggi; si presentano sotto celate vesti, plasmati da altre culture e farciti di nuovi significati, ma, non dimentichi, conservano intatto il fascino dell’antico passato, quando ancora la sacralità era dominio della natura. Questo è il caso de “Su Nènniri”, una delle tradizioni pasquali più diffuse nell’Isola, una pratica sacra in cui pulsa, però, un cuore pagano. Dalla costa ai borghi dell’entroterra, “Su Nènniri”, insieme a palme e ramoscelli d’ulivo, è parte integrante del pacchetto delle tradizioni pasquali isolane e non vi è chiesa che non ne contenga uno. Candidi germogli di grano svettano da un vasetto ornato con fiori e nastri, per adornare “su Sepulcru”, il sepolcro del Cristo, durante il Giovedì Santo: dei veri e propri “giardini”, simbolo cristiano della morte e della risurrezione, che nascono al buio, sotto un soffice velo di ovatta, per poi appassire velocemente, alla luce del sole.

La tradizione

Su Nènniri” è un piccolo vaso colmo di terra e bambagia che – secondo l’antica tradizione cristiana – si preparava al principio del periodo di Quaresima, solitamente durante il Mercoledì delle Ceneri: un compito che spettava principalmente alle donne. Seminato con chicchi di grano, misti ad orzo e semi di lino, il vasetto veniva poi ricoperto da uno strato di cotone e nascosto in un luogo caldo, lontano dalla luce: sotto il letto o dentro a un armadio, la semina riposava al buio, costantemente innaffiata, per diverse settimane e i germogli, in virtù della privazione della luce solare, crescevano pallidi, assumendo un colore bianco o giallastro. Giunto il Giovedì Santo, “Su Nènniri” veniva poi portato in chiesa e, una volta secco, il pallido fogliame andava bruciato per evitare che venisse profanato: in antichità, i germogli venivano conservati con cura e impiegati per “is affumentus” (le fumigazioni), considerati un toccasana per molti mali.

I pallidi germogli de Su Nènniri – Fonte www.lulivetosulcanalbianco.blogspot.it

Ancora oggi, la tradizione de “Su Nènniri” è forte e vive nella cultura cristiana dell’Isola, ma, in realtà, quei pallidi germogli di grano hanno radici ben più lontane che si innestano in un terreno squisitamente pagano. Bagaglio di un ancestrale rituale propiziatorio comune a molti popoli dell’area mediterranea, “Su Nènniri” rimanda direttamente al culto dei giardini di Adone, il dio greco della vegetazione che nasce in primavera, portando abbondanza, e muore sul finire dell’estate. Secondo il mito, Adone era conteso da Persefone e Afrodite, preferendo la seconda alla prima e scatenando le ire di quest’ultima. Per decisione di Zeus, il dio conteso dovette dividere il suo tempo tra le due contendenti: la prima metà dell’anno nel regno degli inferi, in compagnia di Persefone, mentre la seconda la passava sulla Terra, in compagnia di Afrodite, continuando a incarnare il ciclo stagionale della natura. Ancor prima di essere greco, tale mito, in realtà, proviene dal mondo mesopotamico e si riflette nel dio Tammuz, divinità agraria simbolo della forza rigeneratrice della natura, che ogni anno discendeva negli inferi per poi risorgere durante il periodo primaverile.

Celebrato in Grecia e in Asia minore – dove tutt’oggi è ancora vivo – il culto dei giardini di Adone arrivò, poi, in Sardegna, mantenendo intatto, almeno prima dell’avvento del Cristianesimo, il suo originario significato: morte e rinascita del dio della vegetazione segnano e celebrano il passaggio dal buio invernale alla luce primaverile, periodo in cui la terra è nuovamente feconda e, generosa, dona i suoi frutti. Per celebrare questo passaggio, il rito in onore di Adone prevedeva la realizzazione di vasi colmi di germogli di cereali e di ortaggi che crescevano e appassivano molto velocemente, metafora della breve vita della divinità, nonché del ciclo perpetuo della natura. I semi, come la divinità, dovevano trascorrere un lungo periodo di tempo lontano dalla luce del sole, il primo negli inferi, i secondi nella terra, e solo quando il clima era propizio, potevano finalmente rinascere.

La tradizione pasquale de Su Nènniri – Fonte www.chiesasarda.it

Come per l’attuale tradizione pasquale de “Su Nènniri”, il compito di preparare e curare i futuri germogli era una prerogativa delle donne. Coltivati in pieno inverno, i vasetti germogliavano proprio con l’arrivo della stagione primaverile: essi erano simbolo della vita di Adone e, al tempo stesso, oggetti sacrificati in suo onore per propiziare la sua successiva rinascita. Sempre le donne, inoltre, piangevano la morte della divinità, rappresentata dai germogli ormai appassiti, che venivano gettati lungo il corso dei fiumi o nelle sorgenti al fine di fecondare le acque e portare fertilità alla terra: nell’Isola erano le sacerdotesse deputate al culto dell’acqua a inscenare la morte del divino, cui seguiva il pianto delle prefiche, le pie donne.

Fino alla prima metà del secolo scorso, un rituale simile si svolgeva a Samugheo, un paesino in provincia di Oristano: in occasione della festa dell’Assunta, le giovinette del paese inscenavano il matrimonio della divinità con una di loro, piangevano la sua morte e festeggiavano, infine, la sua risurrezione. Era la sposa a preparare il vaso dei germogli di grano e a condurlo, con corteo al seguito, fino ad un precipizio, dal quale, poi, veniva gettato. Dopo il pianto, infine, si festeggiava la sua rinascita con la messa e la processione dell’Assunta.

Bari Sardo, sagra de Su Nènniri – Fonte www.sardegnaeventi24.it

Oggi, “Su Nènniri” è soprattutto un simbolo pasquale: specie nel Cagliaritano, il vasetto è anche un dono per amici e parenti in segno di prosperità e imbandisce la tavola durante il pranzo pasquale. In altre zone del Campidano e in Ogliastra, invece, “Su Nènniri” si prepara a fine maggio e viene raccolto un mese dopo per sfruttare i poteri “magici”, acquisiti con la seminagione fino al solstizio d’estate. A Bari Sardo, infine, la seconda domenica di luglio si celebra una vera e propria sagra de “Su Nènniri” che coincide con la festa di San Giovanni: i vasetti accompagnano la processione per il Santo e, benedetti, vengono poi gettati in mare in segno propiziatorio.

Non più passaggio dall’inverno alla primavera, non più sacrificio del dio della vegetazione. Spogliato dal suo carattere pagano, “Su Nènniri” acquista, quindi, il significato cristiano: morte e risurrezione del Cristo, trionfo di gioia e salvezza, ma la tradizione dei vasetti di grano conserva, intatto, il fascino dell’antico passato, simboleggiando, anche se in chiave diversa, la vittoria della luce sulle tenebre.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

Il vescovo Antonello-Mura

Pubblichiamo il messaggio augurale per la Pasqua di quest’anno che il vescovo Antonello Mura ha pubblicato nell’ultimo numero del mensile diocesano L’Ogliastra. Sono parole che risuonano anche come un invito a vivere il tempo pasquale con atteggiamenti che aiutino a riscoprire la presenza del Risorto.

Un passaggio del Credo che recitiamo la domenica nella Messa merita una riflessione per vivere pienamente la Pasqua. Noi non diciamo “credo” nella risurrezione dei morti, ma “aspetto” la risurrezione dei morti. Aspettarla, desiderarla, sperarla, aiuta a credere e quindi rafforzala fede. Non certo questo per un gioco di suggestioni o per alimentare illusioni rasserenanti, ma piuttosto perché ciò che noi speriamo profondamente trova in Gesù un esemplare ineguagliabile. Lui è sempre un uomo di speranza in ogni momento della vita: quando piange e grida di non voler morire, quando risuscita da morte e promette che risusciterà anche noi nell’ultimo giorno. Dio affronta la morte per dirci che sta dalla nostra parte e che mai dobbiamo rassegnarci a morire.

Chi è ferito non solo fisicamente, chi soffre per la morte di un familiare, chi ha fatto esperienza della violenza altrui non può non sperare nella vita. Viviamo così in profondità queste aspirazioni che anche quando i nostri occhi sono offuscati dalle lacrime e ci sembra di sperare contro ogni speranza, abbiamo sempre bisogno di dire, di pregare, perfino di rimproverare dolcemente nostro Signore, come fecero Marta e Maria a Gesù: «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21). Molte volte queste frasi ci sono risuonate dentro, perché la storia di Lazzaro racconta la nostra storia e anticipa anche quella di Gesù. Tutti i sepolcri, non solo quelli fisici, ci dimostrano che croce e risurrezione sono inscindibili. Lo sono nell’umanità, quando essa cerca con grande fatica di alimentare la vita senza riuscirci, creando invece all’opposto cantieri di morte per i singoli e per i popoli; lo è per Dio, quando il grido del Crocifisso raggiunge drammaticamente il Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Mc 15,34).

Ma la speranza della risurrezione non delude, essa continua a sorgere dalla storia dell’umanità: dal grido di un crocifisso come dalle tombe destinate a rimanere vuote. E i sepolcri, tutti, possono essere svuotati unicamente dall’amore, perché l’amore è più forte della morte e solo «chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14). Ama sempre, ama comunque, ama nonostante tutto. Gesù è l’esemplare, come Dio e come uomo, di un amore che non arretra mai, neanche quando, innocente, viene condannato a un’ingiusta sentenza.

Quando vivo l’amore a immagine di Gesù, io vivo da risorto, ancor prima della risurrezione dopo la morte. La vera sfida per i credenti Vivere da risorti è vivere oggi da risorti, perché aspettare la risurrezione dai morti significa impegnarmi già da ora per sconfiggere ogni morte. Questo è il dono della Pasqua a quanti si lasciano coinvolgere dalla vita di Gesù: la morte non ha mai l’ultima parola per chi lo sceglie, lo ama e si lascia da lui amare. Chi ama non morirà in eterno.

Nel nostro quotidiano, nella nostra fede talvolta smorta, tra le nostre speranze deluse, insomma nel groviglio di ogni giorno che continua a seminare dolorose strisce di morte, compaia uno sguardo profondo che ci faccia vedere tra i crepacci del presente il fiore che nasce, la vita che continua a sconfiggere la morte.

Grazie a Lui. Buona Pasqua.

L’articolo Il messaggio pasquale del Vescovo Antonello Mura alla comunità ogliastrina proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

In Sardegna si registrano oggi 1643 ulteriori casi confermati di positività al COVID (di cui 1358 diagnosticati da antigenico). Sono stati processati in totale, fra molecolari e antigenici, 9443 tamponi.

I pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva sono 19 ( -2 ).

I pazienti ricoverati in area medica sono 331 ( -5 ).

29762 sono i casi di isolamento domiciliare (-96).

Si registra il decesso di un uomo di 68 anni residente nel Sud Sardegna.

L’articolo Covid, oggi in Sardegna una vittima e più di 1600 nuovi casi proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

In Sardegna l’argia – nota anche come “arza” – è stata per lungo tempo portatrice di significati e sentimenti diversi e addirittura contrastanti. Anzitutto d’odio, perché causa di malattie, ma ancor più di divertimento, perché pretesto per l’inizio di canti e sfrenati balli di gruppo.

rito argiaSecondo una leggenda particolarmente diffusa nell’entroterra isolano, Dio avrebbe deciso un giorno di liberare l’intera Sardegna da ogni sorta di animale velenoso. Solo l’argia – un piccolo ragno caratterizzato da corpo nero e vistose macchie rosse, che ancora oggi prolifera nell’oristanese – sarebbe quindi sopravvissuto, continuando a mietere vittime con il suo morso, spesso letale. Così com’è tipico di numerose analoghe danze ancestrali, secondo la tradizione si poteva guarire da questo pericoloso contatto soltanto grazie ai canti e – soprattutto – alle danze del resto della comunità. Tre donne, in particolare, dovevano far parte del gruppo dei danzanti: una giovane vergine, una donna sposata e una vedova.

Secondo la credenza, il fine della danza era purificatore. Non soltanto contro gli effetti fisici del veleno – aumento della sudorazione, febbre, vomito -, quanto in opposizione alla possessione quasi demoniaca di cui si riteneva fosse oggetto la vittima. I rituali danzanti potevano quindi durare fino a tre giorni, e in aggiunta al valore religioso – l’argia veniva associata a una presenza maligna priva del battesimo – la celebrazione diveniva per la comunità un prezioso momento di svago e divertimento, contrapposto alla faticosa e monotona vita dei campi. In tanti si sono interrogati sulla natura femminile delle tre figure protagoniste della danza, condivisa anche dallo stesso animale. Fra le conclusioni più accreditate, si ritiene che la danza sfrenata rappresenti la temporanea liberazione dalla repressione sociale e sessuale che tanto a lungo costrinse le donne, sarde e non solo.

L’articolo Leggende sarde. Il ballo dell’argia, la danza per scacciare il ragno demoniaco proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

L’antica leggenda che narra dell’arrivo della statua della Madonna delle Grazie a Ilbono, postata tempo fa sui social da Andrea Piroddi.

“Una nostra, antica, leggenda, narra di una nave di pirati, attratta da una bella chiesa da saccheggiare. Frutto della razzia, una cassa di legno pesantissima. Ripreso il mare, mentre veleggiava al largo delle coste ogliastrine, una burrasca la sorprese! L’imbarcazione, stracolma di bottini, frutto delle tante razzie compiute, stava per affondare. Il capitano, intuendo il pericolo, decise di alleggerire il carico della nave: venne buttata a mare anche la cassa di legno. La cassa venne presto inghiottita dal mare in tempesta, mentre la nave, alleggerita, riprese la sua navigazione: la burrasca com’era arrivata se n’era andata!

Passano i giorni e arriva l’estate, i contadini di Ilbono scendono, dal paese, nelle fertili valli: c’è da mietere il fieno. I ricchi terreni arrivano fino alla spiaggia di Cea e confinavano con gli altri Comuni (Lanusei, Elini, Arzana, Loceri, Barisardo e Tortolì). Un giorno, uno strano luccichio in mare attrae un giovane contadino: è la cassa di legno depredata dai pirati.

Il giovane, da solo, non riesce a portare a riva la cassa, quindi, chiama aiuto. Gli agricoltori arrivano in massa: attratti da un improbabile, e tanto desiderato, tesoro. Con la forza delle braccia, riescono a portar in spiaggia la cassa ed a fatica la aprono.

Grande fu la delusione, nessun tesoro! Venne rinvenuta, solamente, una Madonna con il suo Bambino. Dopo lo sconforto iniziale, nacque nei contadini una forte diatriba, su chi se ne sarebbe impossessato. Il primo che l’ha vista? No.

Dopo breve ed animata discussione, venne deciso di affidare al caso le sue sorti. Venne preparato un giogo di buoi indomiti, e ad esso fu agganciato un carro su cui fu depositata la cassa. Si decise, inoltre, che i buoi sarebbero stati lasciati liberi di scegliere la strada: la statua sarebbe stata consegnata alla chiesa del paese in cui essi si sarebbero fermati.

Gli agricoltori (di tutte le comunità) provarono ad incitare i buoi per attrarli presso le loro parrocchie, ma i buoi si incamminarono con decisione verso Ilbono, e li si fermarono.

Erano le 11 del mattino del due luglio del 1600. La notizia si diffuse rapidamente presso tutte le comunità limitrofe e la chiesa di Ilbono, che onorò la statua con il titolo di Madonna delle Grazie, divenne, ben presto, meta di tanti devoti e sempre più numerosi pellegrinaggi, soprattutto in occasione della festa. Dal giorno, la festa in onore della Madonna delle Grazie, viene celebrata sempre, la prima domenica di luglio. Per ricordare la tradizione, la statua della Madonna delle Grazie, ancora oggi, viene portata in processione su un carro a buoi, addobbato a festa.”

 

L’articolo Una nave di pirati e un tesoro: l’arrivo della statua della Madonna delle Grazie a Ilbono proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Un tempo gli ulivi e le palme erano gli alberi più rigogliosi, con lunghi rami e dalle fronde verdeggianti. Ma quando per la Palestina si sparse la notizia della condanna in croce di Gesù, tutte le creature inorridirono. Gli ulivi e le palme modificarono il loro aspetto. 

Quando Gesù venne condannato, il sommo sacerdote Caifa ordinò che si cercasse un legno per la croce. Per tutte le foreste della Palestina si sparse allora la voce di tale ricerca. Le palme tremarono di paura, le loro fronde scosse dal forte vento persero le lunghe foglie e si svuotarono dall’interno, non volevano diventare il triste legno per la croce di Cristo. I sacerdoti che erano stati inviati nella foresta, dopo averle esaminate le scartarono, il loro aspetto non si prestava più neppure al legno di una croce.

Fu la volta degli ulivi, gli alberi più belli e  maestosi del bosco. Neppure loro volevano diventare complici della morte di Cristo e inorridite si attorcigliarono su se stesse, si strapparono le viscere e cercarono sprofondare nella terra. Diventarono così dei bruttissimi alberi rattrappiti, curvi e storti. Gli uomini inviati dal sommo sacerdote li videro e inorriditi passarono oltre. Proseguirono la loro ricerca in una foresta di querce e di faggi e scelsero un grande e robusto albero di quercia che ebbe il compito di dare il legno per la croce.

Gli ulivi erano felici di non essere stati scelti ma al contempo piansero per il crudele destino del Redentore e le loro lacrime si tramutarono in piccole gocce. Quelle gocce presero il nome di olive e servirono per nutrire, abbellire e per profumare gli uomini, fu il dono del Creatore per non essersi rese complici della morte del proprio figlio. 

Leggenda tratta dal blog https://mammaoca.com/

 

L’articolo Aspettando la Pasqua. La leggenda degli alberi di ulivo e delle palme proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Prima dell’arrivo del Covid nelle nostre vite, il Venerdì Santo tantissime persone si riunivano a Monte Attu, per assistere alla Via Crucis vivente, che coinvolgeva un centinaio di figuranti, vestiti con costumi ispirati all’epoca.

L’ultima edizione fu quella del 2019, infatti. Una folla numerosa decise di assistere alla rappresentazione delle ultime ore di Cristo, interpretato magistralmente in quella occasione dal tortoliese Paolo Piras.

Davanti alla chiesa di San Giuseppe venne allestita la scena dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, a seguire nel giardino antistante tra gli ulivi, l’arresto del Cristo e l’inizio della processione tra le strade del quartiere tortoliese.

Nell’ultima abitazione alle pendici del promontorio della Croce di Monte Attu, interpretate varie scene: Gesù  giudicato da Ponzio Pilato, fustigato dai soldati, e poi rinnegato dal discepolo Pietro. Dopo questa interpretazione iniziarono le quattordici stazioni tradizionali – gli episodi più significativi – della passione di Cristo.

Una rappresentazione delle ultime ore di Cristo molto riuscita da parte del gruppo Via Crucis di Monte Attu.

Ecco alcune immagine di quell’edizione:

 Guarda la gallery


 Via Crucis 10  


 

L’articolo (FOTO) Vi ricordate? A Tortolì, la Via Crucis vivente di Monte Attu nel 2019 proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi