Nuovo appuntamento con il Maggio dei Libri 2023 nella Biblioteca civica “Angelino Usai” di Lanusei. La rassegna curata dall’associazione Voltalacarta, con la collaborazione della cooperativa La Nuova Luna che gestisce il presidio culturale, avrà come ospite Bastiana Madau e il suo libro “Maestre dell’Università sconosciuta”. La saggista di Orani dialogherà con la presidente di Voltalacarta, Loredana Rosa. L’appuntamento è per sabato 27 maggio alle 18, nella biblioteca di via Zanardelli 21.

“Maestre dell’Università sconosciuta” è un libro prezioso perché è nel contempo antropologico, etnologico, poetico, filosofico, umanista e politico. Bastiana Madau racconta l’immenso patrimonio di narrazione orale ancora molto presente in Sardegna, attraverso il filtro della sua memoria personale e arricchendolo con le riflessioni sulla letteratura per l’infanzia e su come l’oralità sostenga la formazione della voglia di leggere.
“La Sardegna”, sostiene l’autrice, “è uno di quei rari luoghi dove ancora pulsa un sapere che passa non dalla carta stampata o dai luoghi d’insegnamento istituzionali, ma da ninne nanne, pani, feste, oggetti, canti.

“Con il suo libro, Bastiana Madau apre mille finestre sul nostro passato, illuminando quindi di preziosi saperi il nostro assetato presente”, spiega Loredana Rosa. “È così che con questo piccolo immenso libro, poesia nella poesia, conosciamo da vicino la temeraria, combattiva e umanissima Marianna Bussalai, ‘organizzatrice di speranza’, sardista e antifascista; incontriamo la coltissima bibliotecaria e poeta Pedra Tzilla mentre viaggia in autobus per la Sardegna per dare voce alle nostre ‘quiete e ignorate poetesse dell’ombra’, rimaste in silenzio per tanto tempo; rivediamo davanti alla luce fioca di un camino, in una casa di Cardedu, Salvatore Cambosu che sussurra racconti a Maria Lai; ritroviamo una giovane e appassionata ‘mastra de partu’ arrivata dal Continente a far nascere quasi duemila bambinə nel paese delle ‘pietre di fuoco’.

Insieme all’autrice mi sono emozionata anch’io col naso all’insù sotto i fiocchi di neve, in una notte stellata nella strada dall’Ogliastra porta a Nuoro. La stessa che, come un ponte creato da questo prezioso libro, porterà per la prima volta l’autrice a Lanusei”.

Nativa di Orani, Bastiana Madau si è laureata in Filosofia a “La Sapienza” di Roma e lavora come editor, critica letteraria, conduttrice di laboratori di educazione alla lettura e alla scrittura. È ideatrice e curatrice della rassegna culturale “Quando tutte le donne del mondo”, nota come “QuFestival”, giunta alla quinta edizione.

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

È il 1987 quando Matteo Porru pubblica la traduzione del “Pinocchio” di Collodi in sardo, sardo campidanese per la precisione.

Non è stata la prima opera importante a essere tradotta nella lingua della nostra meravigliosa isola, però il “Pinocchiu” era la versione sarda di un capolavoro per l’infanzia, quindi sarebbe stato uno strumento utile affinché “is pipius e is piccioccheddus de sa Sardigna” imparassero – in modo divertente tramite un grande classico – la lingua della propria terra, una lingua sempre meno studiata e valorizzata e pertanto poco conosciuta dai nostri pargoli.

“Ci fiat una borta… «Unu rei!» hant a nai luegu is pipius chi hant a liggiri custu liburu. No, pipieddus, heis sbagliau. Ci fiat una borta un arrogu de linna. No fiat linna de valori, ma un arrogu calisisiat de cussus truncus ammuntonaus chi, cand’arribat s’ierru, si ponint in is istufas e in is gimineras po alluiri su fogu e po calentai is domus.”

“C’era una volta… «Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.”

Matteo Porru, classe 1934, è stato insegnante e dirigente scolastico. Ha sempre fatto parte di un circolo di intellettuali strenui difensori della linguistica locale. Ha pubblicato altri libri per valorizzare la lingua sarda.

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Il Museo di Laconi si colloca come una delle principali strutture museali della Sardegna e presenta una vasta collezione di circa quaranta statue-menhir risalenti all’Età del Rame, frutto dei recenti scavi effettuati nel territorio circostante grazie alle ricerche del celebre archeologo E. Atzeni.

La struttura museale, costruita all’interno della pittoresca cornice delle vecchie carceri mandamentali risalenti al 1857, è composta da sette sale, di cui ben sei sono interamente dedicate all’esposizione dei monoliti scolpiti, tra cui i famosi Barrìli I e Genna Arrèle I noti al grande pubblico.

Le statue-menhir in mostra, comunemente indicate anche come “statue-stele”, rappresentano perfettamente la simbologia funeraria dell’epoca e presentano sulla facciata anteriore un’ampia varietà di figure antropomorfe, fra cui quella a forma di candelabro rovesciato, che simboleggia il mondo dell’oltretomba. Alcune statue-menhir presenti nella collezione, invece, sono state riconosciute come rappresentazioni femminili, mentre altre ancora non presentano elementi attribuibili a uno specifico genere. Una sezione del museo è riservata alla mostra di antiche ceramiche, manufatti litici e strumenti metallici trovati nell’area di diffusione delle statue-menhir durante le ricerche archeologiche.

In sintesi, il Museo di Laconi è un tesoro di storia antica e simbologia funeraria che offre al visitatore l’opportunità di immergersi completamente nel mondo affascinante dell’Età del Rame e scoprire il significato di simboli e immagini di un’epoca passata.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Sabato, alla libreria Koinè di Sassari, è stata presentata la raccolta poetica dell’artista e poetessa lanuseina Stefania Lai “Nel tempo gigante”, Robin Edizioni.

Quella sassarese è stata la quarta presentazione del libro. La prima si è svolta ad Assisi, in sala conferenze alla Cittadella, la seconda ad Alghero, alla libreria Cyrano. La terza presentazione è stato un incontro prezioso e intenso con il pubblico alla biblioteca di quartiere Bibliolab, all’interno dell’Istituto comprensivo Latte Dolce Agro a Sassari.

La presentazione alla libreria Koinè, ha visto Stefania Lai dialogare con l’amica e poetessa Speranza Serra, donna e sorella di talento, profonda conoscitrice e studiosa di poesia e letteratura e con il collettivo CLIP, un gruppo di giovani performers, attori e autori che attivamente portano cultura e parole nella loro città ed oltre.

«Non è stata la semplice presentazione di un libro di poesia – spiega Stefania Lai – Il numeroso pubblico presente, non solo in questa occasione, ha conversato con noi restituendoci la sensazione di una poesia sempre più necessaria nella contemporaneità. Si è parlato della mia poesia, ma non solo, anche di poesia come strumento per una nuova comprensione dell’esistenza, come preziosa fonte di stimolo ad una relazione più umana col pianeta.  Si è parlato di Rilke, Tagore, Szimborska e delle poete, sempre più numerose, dalla lirica potentemente suggestiva. Di una poesia che a volte spaventa perché sa muovere l’animo, di quella passata a voce dalle donne ai propri figli e compagni, della poesia muscolare, l’Action Poetry, della poesia che cura, che porto, come arteterapeuta, a chi vuole implementare ed arricchire la propria crescita personale, a chi vuole conoscere di sé gli spazi emotivi e creativi».

«Si è parlato di reti di salvezza tessute insieme, che ci sostengono come solo l’arte sa fare in questi tempi “giganti” di schiaccianti richieste , in cui dobbiamo essere performanti, di successo, freschi, in forma, esteticamente apprezzabili, mentre perdiamo la nostra autenticità e dimentichiamo cosa ancora ci fa felici» conclude l’artista e poeta ogliastrina.

La raccolta poetica di Stefania Lai porta il racconto di questo tempo “gigante” nel quale scoprire il minuscolo, l’anima e lo sguardo oltre le cose ci salva da una realtà gravosa e ci riporta al gruppo, all’insieme, ci racconta che “siamo” è la parola giusta per definirci, e ci descrive connesse e connessi a tutto il pianeta in divenire. Ci ricorda come “vivere poeticamente il mondo”. La poesia dunque, questo linguaggio colmo di simboli, di immagini spesso radicate così profondamente da arrivare alla profondità di chiunque, non si limita alle pagine di un libro, ma entra nella vita delle persone, diventa un pane buono, a nutrire ogni fame di senso.

Interessante la considerazione di Speranza Serra: «Questa dimensione meravigliosamente comunitaria, di chiunque, è quella che si può raggiungere quando ci si incontra nel dialogo attraverso le arti. Questo è successo sabato, che molte persone si sono incontrate ed hanno scoperto di essere parte di un tessuto umano che può usare la poesia e le arti come linguaggio preferenziale per esprimere verità profonde e salvifiche».

Queste presentazioni, o meglio “questi incontri di poesia” hanno smosso emozioni e riflessioni; hanno provocato dei veri “accadimenti’  fra le persone: le donne soprattutto hanno agito da “facilitatrici” presso i loro compagni leggendo i testi a voce alta nell’intimità della casa.  E appunto l’ oralità della poesia è stato un tema di discussione molto partecipato nel tentativo di dare risposte alle domande: quando ci siamo allontanati dalla poesia? Da quando ne abbiamo così paura? Forse da quando i versi sono stati rinchiusi in tomi nelle accademie, destinati a poche elite? .

Forse da quando abbiamo perso il coro e il canto collettivo. Da questi incontri è scaturito forte e chiaro il bisogno della parola poetica. Come una sete misconosciuta che finalmente trova fonte.

Una poesia di Stefania Lai:

Non appartengo a nessuno
Neanche a me stessa
Quando mi lego le scarpe sono altrove
e spesso trascuro un sano respirare
mi dimentico del cuore se batte
e non so se il sangue va
o torna alla camera oscura
Non è affatto mia la mia persona
per troppo tempo infatti
sono via
Impegnata a tracciare
brandelli di ricordi sfilacciati
sensazioni da decifrare
parole sfumate al silenzio
Nascosta nel corpo
a tessere reti di salvezza
per il corpo e per me stessa
per noi sorelle di carne e pensiero
da ricucire sui bordi
rianimare e gettare nel mondo.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Se vi siete imbattuti nelle feste popolari tipiche sarde come quella di Sant’Efisio a Cagliari o la Cavalcata di Sassari, avrete sicuramente notato i classici indumenti, riconoscibili nei tratti caratteristici come i colori, i tessuti e lo stile particolare dei vari “componimenti”. Si possono ammirare anche nei diversi musei etnografici della Sardegna.
Ma, come nasce questa tradizione e quali storie si celano dietro gli abiti?
Scopriamolo insieme!

Il costume sardo, diverso per ogni località, indicava la provenienza di chi lo indossava, esaltando l’estrazione e lo stato sociale. Ogni costume era adatto per particolari occasioni: quelli più originali ed elaborati per le feste, più semplici per tutti i giorni, diversi per i ricchi e per i poveri, per le donne sposate, per le nubili e per le vedove.
Nonostante i costumi sardi siano tutti particolarmente elaborati e variopinti, la differenza tra uomo e donna era notevole anche in questo aspetto: colorati e sgargianti per le donne, più severi quelli degli uomini.

L’attività tessile nella nostra regione risale all’Età del Rame e fortunatamente sono ancora tante le testimonianze arrivate fino ad oggi dall’epoca romana. Tra i materiali utilizzati per la realizzazione degli abiti sardi, il più originale è il broccato: un tessuto pregiato che ha origine nel 300 d.C. in Asia. I diversi colori del broccato, nell’abito sardo, rappresentavano una determinata fase della vita.

Sugli abiti sardi si possono individuare le influenze dei popoli invasori del passato: ogni comunità infatti può contare su un proprio vestito tradizionale diverso da tutti gli altri.
La realizzazione non è semplice e il lavoro degli artigiani veniva tramandato da generazione in generazione.Il vestito tradizionale delle donne può contare sulla cuffia, una camicia sempre di colore bianco e il corsetto che può essere di diversi tagli. Per decorarlo ulteriormente si usava “sa sabeggia” un amuleto donato ai neonati che veniva portato per tutto il corso della vita.
“Su sciallu” (lo scialle) solitamente nero o marrone, veniva arricchito con motivi floreali.

Per quanto riguarda il costume maschile, invece, abbiamo: la camicia,  i pantaloni di lino bianco, il gilet, il berretto, la giacca.
Del costume può far parte anche la mastruca, grande cappotto di lana con pelle di pecora. Questo indumento ha una storia particolare: si tratta di una veste di pelle lanosa; Cicerone definiva i sardi come “latruncoli mastrucati” e questo riferimento era collegato alla convinzione che il popolo sardo era riuscito a non farsi mai sottomettere del tutto dai romani.

Altro elemento molto particolare è sicuramente “sa Berritta”: il copricapo di forma cilindrica in panno nero (a volte anche rosso), che aveva all’interno un taschino per il tabacco o il pettine.
Infine, “su saccu nieddu”: la mantella dei pastori, porcari e caprai, era uno scaccia acqua e li proteggeva durante i temporali.

Davide Gratziu, giovane illustratore e grafico di Cagliari, ha dedicato delle sue opere a questo argomento, studiando nei minimi dettagli le caratteristiche di ogni indumento. Ci mostra quindi degli esempi di questi meravigliosi abiti, raccontandoci il suo modo di immaginare le donne e gli uomini di quell’epoca.

 

“Trittico donna in abito sardo”.
Siamo donne, siamo madri, siamo sorelle e siamo unite.
Siamo la forza che porta avanti la famiglia, la corazza della casa e della società.

 

 

“Uomo in abito sardo.”

Ogni mattina mi sveglio alle 4.
Ho la mia routine. Seguo il pascolo, passeggio per le mie terre.
Assaporo il profumo della natura che mi circonda.
Arricchisco la mia anima con l’essenza delle nostre tradizioni.
Sono un uomo.
Sono un pastore.
Sono un amante della natura.
Sono sardo.

 

“Donna sarda mosaico”.
Una folata di vento mosse il mio velo.
Ero bellissima. Usavo l’abito di mia madre. Sembrava cucito sulla mia pelle. Strati di tessuto raffinato, gioielli che illuminano il mio viso e mi rendevano fiera delle mie tradizioni.
Passeggiavo per il mio paese.
Mi sentivo come in un limbo nel tempo.
Ero avvolta dalla storia dei miei avi e dal futuro dei miei figli.

Sono qui ora, lo sono sempre stata e ci sarò per sempre. 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

La storia del carcere di Castiadas ebbe inizio, per volere di Eugenio Cicognani, nel 1875 in un periodo dell’anno che somigliava all’inferno. Ma i condannati ai lavori forzati, in fila con i loro carcerieri, sbarcarono lo stesso sulla spiaggia di Cala Sinzias. La loro fatica sarebbe stata enorme: doveva sorgere il carcere agricolo più grande della Sardegna e dell’intera Italia e non c’era tempo da perdere.

Mano a mano che il tempo passava, altri detenuti furono trasferiti a Castiadas per contribuire ai lavori. Il carcere era dotato di una falegnameria, un’officina meccanica, una farmacia, una stazione postale, una officina dei fabbri e una stazione telefonica. L’area intorno al carcere venne bonificata e avviata alla coltivazione di ogni sorta di colture agricole come cereali, legumi, frutta e verdura, servite non solo a sostentamento dei reclusi e del personale, ma anche a fini commerciali. Inoltre, il carcere di Castiadas divenne famoso per la produzione di carbone. Il compenso dei detenuti era determinato dal tipo di lavoro svolto.

Il carcere resistette fino al 1952, ma non fu certo un posto lieto: molte persone decisero di porre fine alla loro vita piuttosto che sopportare le dure condizioni del carcere.

Oggi, però, il vecchio carcere è stato recuperato e trasformato in una meta turistica, soprattutto in primavera quando la zona non è ancora presa d’assalto dai turisti e la temperatura è mite. Nel 2015, l’opera di recupero ha riguardato la casa del direttore, le scuderie e un’intera ala del carcere.

L’articolo Lo sapevate? Un tempo a Castiadas c’era uno dei carceri agricoli più grandi d’Italia proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Gianluca Moro, 36enne tortoliese, ha fin da piccolo nutrito una passione viscerale per la musica. Questa inclinazione, unita ad anni di studio ed esperienze maturate sul palco, lo ha portato al successo nel campo della musica lirica. Da anni vive a Bologna e per lavoro viaggia in tutto il mondo, senza però scordare mai la sua terra d’origine, alla quale rivolge oggi anche un piccolo appello.

Conosciamolo meglio.

Quando e come hai scoperto la tua passione per la musica?

Ognuno di noi ha qualcosa su cui puntare, su cui ragionare, da scoprire, da coltivare e da far fiorire. Non importa il come, questo si scopre strada facendo. Ci convivi e ti fai interamente conquistare, ti fai sopraffare e poi impari a governarlo trasformandolo a tuo modo. La musica è un elemento come tanti altri. Probabilmente non siamo nemmeno noi a scegliere, veniamo scelti: il nostro compito è solo quello di capire, con ciò che la vita ci regala, come possiamo costruire qualcosa di solido e duraturo. Inutile dire che ho sempre avuto un’attrazione per tutto ciò che riguarda il mondo dello spettacolo in generale. Da che ho memoria mai ho pensato di voler diventare qualcos’altro, e se è accaduto, quel pensiero è stato dettato solamente dalla paura che parlava al mio posto. La musica è arrivata per caso, prima attraverso il pianoforte e poi con la voce, che a dirla tutta ho scoperto nelle scale di casa… era il posto dove “correva di più” (in gergo quando si dice che la voce corre significa che ha un suo fuoco, una direzione e un’identità ben definita e inattaccabile), e poi in cameretta, dove tutti noi da piccoli sperimentiamo, impariamo a conoscerci, nascosti dagli occhi del mondo fuori. E’ stato il primo palcoscenico, il primo pubblico, il posto sicuro in cui l’infinita fantasia a nostra disposizione alimenta il tutto. Estremamente banale a dirsi, ma è così: se solo riesci ad immaginarlo, puoi farlo. In sunto la musica c’è sempre stata, ed è il termine che mi permette di essere me stesso, nel miglior modo possibile.

Hai mosso i tuoi primi passi nella Scuola Civica di musica di Tortolì. Cosa provi, oggi, nel sapere che è una realtà che non esiste più?

La scuola civica è stata il posto dove ho appreso le prime nozioni musicali, ho mosso i primi passi e commesso i primi errori, molti errori. Ho bellissimi ricordi a riguardo. Le lezioni, i compagni, le colossali stecche, i saggi e le prime esibizioni, e anche i primi pareri contrastanti di chi ascoltava e pensava che probabilmente non ci avrei potuto fare meno di niente con ciò che avevo tra le mani. Quei pensieri non richiesti che ti vengono sbattuti in faccia in modo crudo, gratuito e disarmante, ma che fanno parte del gioco. Conservo tutto gelosamente. Non credo di dover aggiungere altro, se non esprimere il dispiacere per una possibilità di studio che non è più concessa, anzi negata, alle nuove generazioni. So che ci sono altre realtà, anche molto belle e stimolanti, e questa è già una grande fortuna, però direi che si potrebbe fare sempre di più.

Come ti sei avvicinato all’opera lirica? Chi sono i tuoi modelli di riferimento?

L’opera è arrivata per caso. Il mio vecchio vocal-coach con cui studiavo a Roma, il tenore afro-americano Timothy Martin, oramai caro e stimato amico, mi regalò un biglietto per La Traviata con allestimento di Zeffirelli all’Opera di Roma. Ci andai e, a dirla tutta, non ci capii praticamente niente, ma allo stesso tempo mi conquistò. Il resto è arrivato da sé. I modelli sono tanti, ognuno ha qualcosa che possiamo rubare, utilizzare, cucirci addosso, però il mio preferito in assoluto – lasciando da parte Luciano Pavarotti, Alfredo Kraus, Mirella Freni, Montserrat Caballé e Maria Callas – è certamente Juan Diego Florez: generosità disarmante, dotato di voce e tecnica che non hanno eguali nel mondo dei vivi. Bisogna andare ad ascoltarlo dal vivo in teatro per rendersi davvero conto di quanto stia dicendo.

 

La tua famiglia ti ha sostenuto in questo tuo particolare percorso?

Assolutamente sì. Pieno sostegno, sempre. Elemento basilare, qualsiasi sia la strada che decidi di percorrere.

Quanto è duro districarsi nel mondo della musica ad alti livelli? Quanti sacrifici hai fatto, a cosa hai rinunciato?

Mi viene da ridere, anzi da sorridere, perché a questo è bene non pensare troppo. I sacrifici sono sempre tantissimi, sia di tipo materiale che immateriale. C’è sempre qualcosa a cui devi rinunciare: i miei amici ad esempio cominciano a costruire una famiglia, comprano casa, ed io combatto con una cadenza di un’aria da risolvere, con un acuto o con una parte che non mi entra in testa, ma che devo imparare a memoria sennò sarà un bel casino. Loro mi mandano la prima ecografia del futuro bimbo in arrivo, e io li invito a teatro… però è bello così, anche perché diventerò “zio” ancora una volta. Rende l’idea? 😉

L’ultimo tuo lavoro ha avuto Cremona come culla ed è stato un grande successo. Ci racconti come è andata?

L’opera si chiama “A Sweet Silence in Cremona”, con musica di Roberto Scarcella Perino e libretto di Mark Campbell (che per altro ha vinto pure un Pulitzer e un Grammy. “Bobboi!”, direbbe una mia carissima amica!). La storia in musica nasce da un evento realmente accaduto a Cremona prima della pandemia. In breve, il sindaco attualmente in carica ordinò tassativamente a tutti gli abitanti del quartiere vicino al Museo del Violino cremonese di fare silenzio per una giornata intera: tutto si fermò, fu silenzio assoluto. Nessun rumore, nessuna auto, moto ecc… nulla di nulla, e tutto ciò in nome della musica. Nel museo, infatti, in quella giornata avrebbero registrato il suono di un violino Stradivari rarissimo e preziosissimo, e per tale evento il silenzio e il suono del violino sarebbero stati gli unici elementi chiamati in appello. Questo, che credo accadde nel 2018 o 2019, catturò l’attenzione di un giornalista del New York Times che ne scrisse un articolo a riguardo, che catturò a sua volta l’attenzione di Campbell, il quale ne scrisse una storia a mo’ di libretto d’opera, musicata successivamente dal compositore Scarcella Perino. Nell’opera i personaggi sono sei, più un cane e un violino.

Chi hai intepretato?

Nello specifico il mio personaggio si chiama Yassine, un teen-ager immigrato algerino, che ha deciso di trasferirsi in Italia con la famiglia per cause di forza maggiore, ma che trova in questo paese la sua casa, il posto in cui poter crescere e vivere sereno. Dico “mio” non per eccesso di possesso, ma perché sono stato il primo – e questo lo affermo con fierezza – ad aver dato voce a questo carattere: ci ho creduto fin dall’inizio, ho creduto nella musica scritta ancora mai suonata, ho creduto nel progetto e nel suo potenziale. Progetto prodotto dal Teatro Ponchielli di Cremona e dal Center of Contemporary Opera di New York, una Premiere mondiale assoluta che replicheremo a Firenze in giungo… e poi chissà… staremo a vedere. Ne approfitto e vi invito a scoprire di più sabato prossimo, 28 maggio, alle 20:55 sul canale 19 del digitale terrestre e sul web: è un’ora di bella musica, in un bel teatro, e con una stupenda scenografia. Se vi va, guardateci e ascoltateci!

Quali sono, invece, i programmi per il futuro?

A fine mese avrò un concerto di musica da camera incentrato interamente su Francesco Paolo Tosti, compositore che visse tra l’800 e il 900, e poi ai primi di giugno per la prima volta sarò una delle voci soliste nella Messa dell’Incoronazione (K312) di Mozart che eseguiremo a Bologna e Ravenna. Sono molto emozionato per entrambi gli appuntamenti, adoro le romanze del repertorio cameristico di Tosti e amo Mozart alla follia. Non posso che esserne grato, doppiamente!

Che consigli senti di voler dare ai ragazzi che si stanno avvicinando al tuo mondo?

Qualche giorno fa su un famoso social ho letto un post in inglese che diceva più o meno così: Se avessi la possibilità di incontrare te stesso a diciotto anni cosa gli diresti? (Hai tre parole a disposizione per rispondere). Commentai sotto scrivendo questa frase: “Unleash your potential”, ossia “Scatena il tuo potenziale”. Vuol dire non avere paura, vuol dire studia e non ti fermare, vuol dire vivi ciò che sei senza reputarti inadeguato e inadatto, e soprattutto credi in te stesso sempre; significa tante cose, e tutte positive. Questo è tutto ciò che direi, o meglio che penso di poter dire… e che tuttora dico a me stesso, perché in fondo non si finisce mai di studiare, di imparare, di scoprire i propri limiti per poi superarli, e di “giocare” a fare le gare con sé stessi. Ammetto in ultimo che questa resta una di quelle domande che mi imbarazzano, e non poco: ho un vagone infinito di roba da imparare, tanto da fare e ancora parecchia strada da percorrere.

Tortolì: hai qualche sogno “musicale” per il tuo paese d’origine?

In realtà è da un po’ di tempo che penso a un progetto che probabilmente avrebbe buone possibilità di concretizzarsi. La parola d’ordine è “Petite Messe Solennelle” di Rossini. Mi piacerebbe poter collaborare con le realtà corali della zona, nello specifico incontrarsi per un concerto che porterebbe in scena questa bellissima messa rossiniana, in cui è presente per l’appunto un coro, due pianoforti, un armonium e quattro solisti. Un’utopia? Resta il fatto che mi piacerebbe davvero tanto poter realizzare questo progetto, che ancora è un’idea, ma che potrebbe prendere vita senza troppi intoppi, forse.

L’articolo Il tortoliese Gianluca Moro: professione tenore: “La musica mi permette di essere me stesso, nel miglior modo possibile” proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Roberto Todde, 38enne di Tortolì con un passato da giramondo e da esperto di moda, si sta facendo spazio nel mondo della comunicazione in Ogliastra grazie alla sua personalità e alla sua passione per la radio. Infatti, Todde ha ideato un format radiofonico interessante e originale battezzato come “Disobbedienti”, che da marzo va in onda ogni mercoledì su Radio Stella.

In questo programma, Todde intervista persone che nella loro vita hanno rotto gli schemi e hanno trovato il coraggio di seguire la propria strada. “Disobbedienti” non è quindi solo un format radiofonico, ma è anche una sorta di tributo alle persone che a vario titolo hanno fatto dell’originalità e della non conformità il loro marchio distintivo.

La scelta del nome “Disobbedienti” non è ovviamente casuale. Todde ha sempre creduto che la disobbedienza sia un fattore fondamentale per il progresso dell’umanità. “Solo andando oltre i limiti imposti dalla società e dagli schemi mentali consolidati, si può veramente fare la differenza e creare qualcosa di nuovo, portare alla luce la nostra vertà” spiega il conduttore radiofonico.

Non a caso, il giovane tortoliese si è ispirato, per trovare il nome giusto per il suo programma, al libro “Le disobbedienti” di Elisabetta Rasy, che racconta la storia di sei artiste – da Artemisia Gentileschi a Frida Kahlo – e della forza che ha animato la loro lotta per imporsi in un ambiente a maggioranza maschile.

Nel corso delle puntate, Todde ha intervistato molti personaggi interessanti e controversi d’Ogliastra. “Ogni intervista è caratterizzata dalla spontaneità e dalla forte empatia che si crea tra me e gli ospiti presenti in studio. Le conversazioni sulle nostre poltroncine spaziano dalla filosofia di vita dell’intervistato alle sue esperienze più significative e controverse” racconta Roberto.

Nonostante le difficoltà che il mondo della radio sta attraversando in questo momento, grazie alla creatività e alla passione di persone come Roberto Todde, ci sono ancora tante storie da raccontare e da ascoltare. “Disobbedienti” è un format radiofonico che incarna perfettamente questi valori e che merita di essere seguito da tutti coloro che cercano il coraggio di fare la differenza.

L’articolo Voci fuori dal coro. Il tortoliese Roberto Todde porta in radio i suoi “Disobbedienti” proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Elodie ha vinto il suo primo David di Donatello, il premio che celebra il meglio del cinema made in Italy, nella categoria “Miglior Canzone Originale” grazie al brano “Proiettili” contenuto nel film Ti mangio il cuore, pellicola nella quale la cantante ha anche recitato.

«Sono molto emozionata, non me lo aspettavo, ma perché io non vinco mai», ha spiegato Elodie sul palco «L’importante però non è vincere, ciò che importa è fare le cose con amore e incontrare belle persone e io ne ho incontrate tante. Grazie per avermi dato questa possibilità».

Alla regia del video della canzone vincitrice troviamo con orgoglio il sardo Roberto Ortu, di San Sperate, che di recente aveva fatto parlare del suo lavoro anche per il video “Due Vite” girato in Sardegna per Marco Mengoni, altro apprezzatissimo cantante, con il quale duetterà presto proprio Elodie.

L’articolo Elodie vince il David di Donatello con “Proiettili”: il video è di Roberto Ortu proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Tutti conoscono la chiesa di Stella Maris ad Arbatax, costruita nel 1953, divenuta parrocchia nel 1966 e dedicata alla Madonna Stella del Mare, ma non tutti sanno che questa chiesa ha una pianta rettangolare e la facciata esterna è composta di pietre in granito, come il campanile che si presenta a tre livelli, a simboleggiare la Santissima Trinità.

Come si può osservare nella foto ci sono tre tipologie di aperture nel campanile: a salire, monofora, bifora e trifora, con una cupola cuspidata e in cima una croce.

La festa in onore della Madonna viene celebrata ogni terza domenica di luglio e coinvolge tutta la comunità.

Durante il weekend della festa, che dura tre giorni, si svolgono numerose attività e festeggiamenti, laici e religiosi, che si concludono la domenica sera con uno spettacolo pirotecnico sulla baia, che attira persone da tutta l’isola e rende l’evento uno dei più importanti dell’estate in Ogliastra.

L’articolo Lo sapevate? Il campanile della chiesa di Stella Maris ha una particolarità: ecco quale proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi