«Un senso infinito di spazio e solitudine»: questa la prima impressione descritta dal documentarista e regista sardo Fiorenzo Serra in un bellissimo documentario sull’Isola realizzato nel 1953.

Un documento prezioso accompagnato sapientemente dalle musiche del compositore cagliaritano Ennio Porrino.

Nel documentario, che racconta con analitico distacco la Sardegna del secondo dopoguerra, compaiono soprattutto le zone dell’interno, Oliena, Desulo, Busachi, Samugheo e alcuni centri del Campidano in particolare.

In questo spezzone pubblicato su Youtube il racconto si concentra soprattutto sui costumi sardi, un unicum in Italia e non solo che colpisce la meraviglia del narratore.

«I costumi della Sardegna non sono solo folklore ma un fatto di vita, il simbolo di un mondo che scompare, l’ultimo vivo barlume di una favolosa stagione» conclude Serra celebrando le tradizioni dell’Isola.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Lo sapevate? Nel 2004 un aereo che trasportava un cuore si schiantò nei monti di Sinnai: morirono 5 persone.

Trasportava un cuore prelevato da una donatrice al San Camillo di Roma e destinato per un trapianto ad un paziente del Brotzu, il Cessna 500 precipitato nel 2004 sui monti di Sinnai. Morirono tre medici dell’equipe del Brotzu, guidata da Alessandro Ricchi, e i due piloti.

Sono passati quasi 22 anni dal 24 febbraio 2004, quando un aereo Cessna 500 proveniente da Roma e diretto a Cagliari si schiantò sulle pendici (punta Baccu Malu) del monte Cresia, sui Sette Fratelli, nel comune di Sinnai.

La notizia suscitò grande commozione, Ricchi e i suoi colleghi erano molto noti a Cagliari. L’equipe morì su un aereo che trasportava un cuore prelevato da una donatrice al San Camillo di Roma e destinato ad un paziente in attesa di trapianto ricoverato all’Ospedale Brotzu di Cagliari. Una corsa contro il tempo che purtroppo risultò fatale.

Nella tragica sciagura accaduta all’équipe cardiochirurgica composta da Alessandro Ricchi, Antonio Carta e Gianmarco Pinna persero la vita, oltre all’équipe del Brotzu anche i due piloti austriaci Helmut Zurner e Thomas Giacomuzzi con il tirocinante Daniele Giacobbe.

 

Il pilota aveva manifestato al Controllo aereo l’intenzione di effettuare un avvicinamento “a vista” rispetto all’aeroporto, dove avrebbe dovuto utilizzare la pista 32. Ciò sarebbe stato motivato dalla volontà di arrivare velocemente all’ospedale, evitando il tragitto più lungo che aggira, dal mare, i rilievi che circondano Cagliari. Al momento di scomparire dagli schermi radar per l’impatto con la parete della punta Baccu Malu, l’aereo si trovava, secondo gli accertamenti effettuati, a circa 3.300 piedi di altezza e volava a una velocità di 226 nodi (equivalenti a 419 Km/h), a una distanza di circa 17 miglia dalla pista.

I soccorritori accorsi sul luogo del disastro trovarono i resti dell’aereo pressoché disintegrati nell’impatto con la montagna e poterono recuperare in giornata i corpi delle vittime. Fu ritrovato anche il contenitore con il cuore che veniva trasportato ai fini del trapianto, ma esso era ormai inservibile.

Un Cessna 500, stesso modello di quello precipitato il 24 febbraio 2004 a Sinnai

Un Cessna 500, stesso modello di quello precipitato il 24 febbraio 2004 a Sinnai

Cinquantuno anni prima, nel 1953, la stessa zona era stata il teatro di un altro incidente aereo. Cadde un DC 3 della LAI, una Compagnia aerea antesignana dell’Alitalia, e morirono 19 persone. Anche in quel caso tra le vittime vi era un cardiochirurgo.

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Un unico viaggio, un amore scolpito nel cuore fino agli ultimi giorni della sua vita. Gabriele D’Annunzio aveva appena diciannove anni quando, nel maggio del lontano 1882, decise di intraprendere un tour dell’isola che aveva sempre immaginato. Un’isola che all’epoca era ancora selvaggia, circondata dalla natura e non dal cemento ed è questa una delle cose che ha spinto il Vate, all’epoca appena diventato famoso, a conoscere da vicino questa “terra magica”, come la chiamò in seguito.

Sbarcò a Terranova (l’odierna Olbia) con due collaboratori della rivista romana Capitan Fracassa e visitò dapprima Alghero, Nuoro e Oliena. Durante il soggiorno nel paese barbaricino il poeta e scrittore ebbe modo di assaggiare il vino Nepente, di cui tesse le lodi nella prefazione del libro dell’amico tedesco Hans Barth “Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri”. Scrisse: “Non conoscete il nepente d’Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domus de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo”.

Poi fu la volta di Villacidro; qui D’Annunzio rimase estasiato dalla cascata Sa Spendula tanto da scriverne una poesia dall’omonimo titolo. Anche la tappa a Cagliari fu di grande ispirazione per il Vate. In particolare, la visione delle bianche piramidi delle saline di Molentargius fu lo spunto per la poesia “Sale”. Nella Sardegna meridionale e a Cagliari D’Annunzio vide molte similitudini con il Nord Africa tanto che, nella poesia “Sotto la Lolla”, paragona certi paesaggi e panorami, oltre che i volti delle persone, proprio all’Africa settentrionale.

Durante il suo soggiorno sardo, il poeta promise di scrivere un libro con foto, storie e testimonianze, ma non se ne fece più nulla. Rimasero però degli articoli, reportage e lettere a testimonianza dell’amore del Vate per la nostra isola. La Sardegna, dunque, lo stregò a tal punto che sognò sempre di farvi ritorno. “Ho nostalgia della Sardegna da dodici anni, come d’una patria già amata in una vita anteriore”, scrisse nel 1893 in una lettera indirizzata al giornalista Stanis Manca. Nonostante le intenzioni, per varie vicissitudini non poté più tornare.

 

(Articolo scritto il 3 ottobre 2018 da Stefania Lapenna).

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

La foto di oggi, gentilmente concessa da Massimo Mulas, ritrae i casotti che negli anni Sessanta facevano capolino al Porto di Arbatax.

Un vecchio ricordo di un’Ogliastra che non c’è più.

Invia le foto più belle del passato ogliastrino alla nostra mail redazione@vistanet.it ( indicando il nome del fotografo e de luogo immortalato).

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

Lo sapevate? Quando il livello del Lago Omodeo si abbassa, compare una grande villa abbandonata.

Quando il lago artificiale fu creato per produrre energia elettrica, la vallata venne sommersa, compresi una villa, un piccolo borgo, una foresta tropicale pietrificata e alcuni nuraghi.

Il lago Omodeo è un lago artificiale della Sardegna. Si trova in provincia di Oristano, nella subregione storica del Barigadu.

È formato dallo sbarramento del fiume Tirso tramite la diga di Santa Chiara prima e dalla più recente diga Eleonora d’Arborea, situate rispettivamente in territorio di Ula Tirso e Busachi. Il bacino idrico è intitolato ad Angelo Omodeo, l’ingegnere che curò la progettazione della prima diga, che rimane parzialmente sommersa dalle acque del nuovo invaso.

Più di cento anni fa, esattamente nel 1917, fu realizzato quello che allora era il più grande lago artificiale d’Europa: il Lago Omodeo, che come detto prende il nome dall’ingegnere che lo ha progettato. Lo scopo del lago era quello di produrre energia elettrica e di sfruttare le acque del Fiume Tirso per irrigare il Campidano.


Ma prima di cominciare i lavori si dovette risolvere un problema: Zuri, un piccolo borgo che si trovava a 88 metri sul livello del mare, sarebbe stato sommerso, poiché l’acqua del lago sarebbe arrivata a 105 metri. Perciò si decise di demolirlo e di ricostruirlo più in alto, compresa una magnifica chiesa romanica del 1291.

Così la valle venne sommersa. Ogni tanto, quando il livello dell’acqua cala, viene fuori il passato: una foresta pietrificata, alcuni nuraghi, e anche quella che viene chiamata la casa del capocentrale o da alcuni “casa del custode”.

Nel 1941, in piena guerra mondiale, la diga fu attaccata da aerei britannici. Fu sostituita da una nuova, alta cento metri e lunga 582, intitolata a Eleonora d’Arborea, costruita in 15 anni e inaugurata nel 1997. La nuova costruzione sommerse in parte il precedente sbarramento.

La vallata ricoperta d’acqua custodisce un tesoro archeologico: insediamenti nuragici e quello pre-nuragico di Serra Linta stanno sott’acqua insieme a una foresta tropicale fossile, antica circa 20 milioni di anni, e al suggestivo paesino di Zuri. Il villaggio, sacrificato con la costruzione della diga, è stato ricostruito a monte, insieme alla chiesa romanica dedicata a San Pietro apostolo (del 1291), smontata e riedificata concio per concio (1923)


Per quanto riguarda la villa, in realtà in questo edificio erano ospitati il capocentrale, il vicecapo e le loro famiglie. Dall’alto gli automobilisti probabilmente non notano nulla, anche perché per buona parte dell’anno l’edificio è quasi del tutto coperto dall’acqua. Si trova proprio sotto la vecchia diga, di fronte al ponte che la sovrasta. Era una bella villa a due piani circondata da un giardino con un laghetto, un frutteto, delle palme e un banano.

L’edificio era costituito da due appartamenti perfettamente simmetrici: al piano terra la cucina con camino, un salone, un piccolo soggiorno e uno stanzino dov’era posizionato il telefono (collegato con la centrale del Tirso); al secondo piano quattro camere da letto e il bagno, e sopra un sottotetto.

 

A causa del prolungato periodo di siccità la casa sommersa nel Lago Omodeo puntualmente riaffiora.

Sul fronte opposto rispetto alla casa del capocentrale, si trova un altro edificio, che in passato ospitava i carabinieri di Ulà Tirso e successivamente i custodi della diga.

 

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

A cura di Massimiliano Perlato

Alimento base delle culture povere, il pane, oltre a nutrire la famiglia, diventava anche protagonista delle feste e delle ricorrenze, cambiando forma e consistenza a seconda dell’occasione. C’era così un pane per la nascita e un pane per la morte, molti per il matrimonio e uno per le date significative del calendario.

Il pane ha così sempre accompagnato l’uomo nel corso della sua storia e con lui ha seguito momenti di evoluzione e di crisi. Per quello che riguarda il pane per il consumo quotidiano, secondo una prima, seppur molto ampia e per nulla esaustiva classificazione, vengono di norma individuate in Sardegna tre aree dove, pur in compresenza di altri tipi di pane, vi è una certa prevalenza di uno di questi.

In una di queste prevale la cosiddetta “spianata”, un pane piatto tondo e morbido, non destinato ad essere inzuppato. In un’altra prevale il pane “carrasau”, un pane tondo e piatto anch’esso, ma croccante e a lunga conservazione, destinato ai lunghi periodi trascorsi lontano da casa. In altre aree prevale un pane con “mollica”, grosso, più o meno alto (in qualche caso assomiglia al panettone), che si accompagna bene con qualsiasi tipo di companatico, ma che trova il suo impiego ideale nelle zuppe.

Fra tutti, il pane con mollica era quello di minor durata, una settimana massimo prima che si indurisse. Di qui l’usanza, un tempo diffusa in molti centri sardi, dello scambio del pane fresco, per cui nella cerchia familiare si panificava a turno e si portava il pane agli altri appartenenti al gruppo, con un alto significato di legame e solidarietà. Né, comunque, ci si disfaceva del pane secco, che invece veniva utilizzato per la preparazione di piatti poveri che alla fine risultavano fra i più saporiti. Basti pensare a “su pane addidu” (il pane bollito nel brodo di pecora), o alla zuppa gallurese.

La panificazione dei sardi, però, non si esauriva con i tre tipi di pane citati. Ve n’erano molti altri che, pur svolgendo una funzione meno decisiva riguardo l’alimentazione quotidiana, avevano comunque un ruolo o sempre legato alla tavola, oppure alle occasioni speciali di cui si è detto. Tale è, ad esempio, quello che in Sardegna assume diverse denominazioni a seconda della zona di provenienza, e che può essere chiamato, in generale, la pasta dura. E la pasta dura, sia nella sua versione più grossa “zichi russu” nel Mejlogu, sia in quella sottile (zichi fine), era di solito il pane su cui si esercitava la fantasia e l’abilità delle donne sarde per ottenere le forme e i disegni cui sarebbe stato affidato il compito di celebrare le occasioni speciali.

Si pensi, ad esempio, ai pani nuziali, che in molti casi, per elaborazione e complessità dei disegni, assurgono a vere e proprie opere d’arte. Ma si pensi anche ai pani delle ricorrenze, “su pane ’e Pasca”, per citare quello che forse è il più noto e il più diffuso in tutte le aree della Sardegna, elaborato e ritorto dalla massaia, fino a ricavarne le più diverse forme che la fantasia riuscisse sul momento a partorire. Il pane di Pasqua includeva, di norma, un uovo intero col guscio, che diventava sodo con la cottura in forno insieme al pane. I diversi tipi di pane implicavano, naturalmente, l’uso di diverse varietà di farine, più o meno raffinate, la cui base era sempre il grano duro.

La farina più nobile, non a caso utilizzata, oltre, che per il pane quotidiano (da chi se lo poteva permettere), per il pane delle feste, era “sa simula”, la semola, ottenuta con diversi gradi di raffinazione, in base al crivello (chiliru) o al setaccio (sesattu, sedattu) utilizzati. L’altra farina era “su poddine”, il fior di farina, molto più sottile della semola, e utilizzata di solito mischiata ad essa o al cruschello, per evitare di ottenere dei pani duri come mattoni. Il terzo tipo di farina, infine, quella meno raffinata, con un’alta percentuale di crusca, era “su chivalzu” o “chivarju”. In alcuni casi, però, le famiglie più povere, o anche quelle ricche, quando panificavano per i loro pastori o lavoranti, utilizzavano la farina d’orzo, da cui si otteneva un pane molto saporito, ma di qualità più scadente. Ancor meno pregiata era la panificazione, limitata per quello che se ne sa a ristrette zone dell’isola e a classi veramente povere, con la farina di ghiande.

Numerosi sono i pani cosiddetti comuni che variano per qualità di farina, foggia e nome secondo le zone. Il “pan ‘e trigu” (di grano) si consuma soprattutto nelle aree di ponente, il “pan ‘e trigu-india” (di mais) è tipico del Logudoro come il “cola cola” di farina bianca e fine, “l’orzatu” (di orzo) dal gusto un po’ acidulo è diffuso in Barbagia. Meno frequenti, i pani di patate, di meliga, persino di ghiande che, bollite, pestate nel mortaio e mischiate con argilla rossa e cenere, lasciano nella pasta striature color cioccolato e un sapore tendente al dolce: ormai sono reperibili soltanto in alcuni villaggi montani dell’Ogliastra. C’è poi un’infinità di pani della tradizione.

Per esempio ci sono quelli che hanno la caratteristica di durare a lungo, come “su zicchi”, di fior di farina, di solito tondo come la più grossa “spianata”, o il famoso “pane carasau” alias “carta da musica” che i sardi chiamano semplicemente “sa fresa”. Fatto di farina di semola di grano duro, secco e croccante, a sottilissimi dischi sovrapposti, il pane carasau viene infornato due volte come il “pistoccu”: entrambi biscottati, accompagnano i pastori al seguito del gregge, e vengono mangiati ammorbiditi nell’acqua o nel brodo. Semola di grano anche nel “coccoi”, di forma allungata. Ma attenzione: nel Campidano così si chiamano le ciambelle allo zafferano, mentre in Gallura “lu coccu” è un pane senza lievito, cotto nella cenere rovente, e “coco” è anche una focaccia di frumento non fermentato e non setacciato, dal gusto un po’ ispido. Nel Meilogu le “coccas” sono pani votivi preparati per i Morti. “Su coccone” e “su coccoroi” sono fatti di norma col cruschello che entra in buona percentuale, unito a semola grossolana, anche nel saporito pane nero “civraxu”, specialità di Sanluri, altrove detto “civarju” o “chivarzu”. Assai più morbida la pasta del “moddizzosu” o “ammoddigadu”, una spugnosa pagnotta fatta a cupola e confezionata per onorare i Santi.

Il panorama si complica quando si passa ai pani cerimoniali e augurali, carichi di significati simbolici. Ogni patrono, festa o ricorrenza religiosa e familiare chiede il proprio, da distribuire tra amici e parenti oppure da donare agli ospiti o ai bisognosi. È allora che le massaie danno via libera al loro estro per modellarli, intagliarli e istoriarli con figure di animali, aiuole fiorite o ghirlande piuttosto che con scene di vita campestre, fino a farne delle vere e proprie sculture commestibili.

Per Capodanno forgiano il pane “candelarju”, carico di ornamenti e ghirigori, e “sos bacchiddos ‘e Deu”, a forma di piccoli bastoni episcopali: i bambini lo ricevono in cambio di una filastrocca cantata di portone in portone; le famiglie tra di loro si scambiano invece il “capude”, una schiacciata di fior di farina riservata alle grandi solennità. All’inizio dell’anno e per l’Epifania preparano anche grandi focacce di farina di frumento su cui raffigurano arnesi e personaggi legati al mestiere del padrone di casa: “sa giuada” dei contadini reca in cima un giogo di buoi e un aratro lavorati con la pasta di pane; “sa pertusitta”, un ovile con le pecore o un pastore col cane legato alla cintola.

A Pasqua si approntano pani con in mezzo un uovo, conosciuti nel Sud come “coccoieddus cun ou” o “coccoi de angùlla” e nel Nord come “cozzala dess’ou” o “di l’obu”. Ma è con i pani nuziali che le donne raggiungono l’apice creativo, plasmando i puntuti “pizzurius” o “coccoi de pizzus” campidanesi e “su pane de cojuados noos” (degli sposi novelli), “pikkadu” (intagliato) e “iskaddadu” (lucidato), come usa nel Logudoro: sottili, ricamati di merletti e resi lucenti immergendoli appena sfornati in acqua calda e poi rimettendoli in forno o spennellandoli con l’albume, hanno spesso forma di foglia, di corone, di uccelli. In alcune località vengono offerti in dono dal vicinato, decorati con pagliuzze di carta colorata e di fiori di pervinca (simbolo di felicità e di fecondità).

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

 

“Su Scultone”, un serpente-drago, secondo una leggenda si aggirava per la campagna di Baunei seminando terrore, perchè uccideva chiunque, fissandolo con il suo sguardo. Inoltre, ogni anno, dovevano essere sacrificate a lui sette giovani fanciulle del paese di Baunei.

Un giorno San Pietro, passando nei pressi del Golgo, trovò una ragazza seduta sopra un masso, che piangeva disperata perchè sapeva di essere destinata a cattiva sorte, quella di finire in pasto al serpente. Le si avvicinò, la consolò e la incaricò di riferire ai paesani che lui li avrebbe liberati del serpente se avessero costruito una chiesa, in quel posto, in suo onore.

E così fu. Pietro andò sul monte alla ricerca di Scultone, e una volta trovatolo, lo prese per la coda e con violenza lo scagliò a terra. Il serpente sprofondò dando origine alla voragine.

E sempre secondo una leggenda, passando di lì nel cuore della notte, si sentono i lamenti delle anime infernali provenire dall’interno, anche quelle di un contadino e ci precipitò con i buoi, punito per aver lavorato nel suo campo anzichè assistere alla Messa nel giorno di festa del Santo.

 

Leggenda tratta da “Ogliastra, paesi e leggende” a cura di Fidalma Mameli 

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

Lo abbiamo visto, rivisto, apprezzato, commentato, condiviso. Del cortometraggio “Nuraghes S’Arena” del regista Mauro Aragoni, che ha come protagonista il rapper Salmo, pensiamo di sapere tutto. Ma non è così. Oggi, con il regista, ci addentriamo tra i retroscena del film, costellato di imprevisti, curiosità e aneddoti curiosi.

 

 

Le dieci cose successe dietro alle quinte che non sapevate di questo piccolo capolavoro cinematografico sardo, ambientato nell’età del bronzo e che vede il guerriero Arduè partecipare a un torneo sanguinoso in un contesto di riti sciamanici con la compagnia del suo maestro Bachis, dove alla fine affronterà colui che ha ucciso sua figlia.

 

1 – Il sangue che avete visto nella scena in cui Salmo si dipinge prima della battaglia è sangue vero (scarti di macelleria), un’ idea di Aragoni e del costumista e oggettista Pier S. J. Per dare più suggestione al progetto. La scena in cui Salmo doveva spalmarselo addosso è stata però girata in ritardo e il sangue è rimasto al sole per ore. Puzzava di carogna. Alla fine Salmo e Aragoni hanno deciso comunque di girarla. «L’unica cosa che gli dissi fu di non odorarsi le mani, ma, ovviamente lo fece e rischiò di vomitare sulla camera – ricorda il regista ogliastrino – Dopo tanti conati e parecchie risate siamo riusciti a girare la scena».

2 – Il progetto è nato da una semplice chiacchierata di Aragoni con il suo barbiere, il tortoliese Giovanni Cabras (di seguito divenuto anche produttore del film). Entrambi pensavano che sarebbe stato impossibile realizzare il progetto ma dopo 3 anni e tantissimo lavoro il film è uscito su Paramount Channel.

3Salmo si è avvicinato al progetto mentre si girava un video di Hellvisback. Sul set c’era il supervisore ai visual effect Alessandro Fele che gli fece vedere il Teaser. «Subito dopo Salmo mi chiamò e invitò me e Alessandro a pranzo a casa sua» ricorda Aragoni.

4– Durante le prove dei combattimenti Dennis Mura (scenografo e costumista delle Mmschere degli sciamani che rappresentano Surtzu e Sa mamulada di Seui) si è rotto una gamba combattendo contro Michael Segal. «Fu un momento orrendo – spiega Aragoni – perché Dennis doveva fare l’attore e combattere. Ci ritrovammo senza un’intera scena quando alla fine si propose un ragazzo, il figlio dei proprietari del B&B che ci ospitava. Alla fine proprio quel giovane ha partecipato al combattimento sulla scena ed è stato bravissimo. La scena è quella in cui Salmo gli sfonda il volto con l’arma dei pugilatori nuragici».

5 – All’inizio il rapper sardo non voleva fare l’attore, voleva solo contribuire alla produzione, ma durante un pranzo Aragoni l’ha convinto a farlo. «Sul set era insicuro alcune volte senza rendersi conto che in realtà stava facendo un gran lavoro» racconta il regista.

6 – Il budget investito è stato minimo ma solo perché gli artisti hanno voluto collaborare a titolo gratuito, diversamente il film sarebbe costato circa 100mila euro.

7 – Le armi usate sulle scene sono tutte vere. Andrea Loddo ha accettato di collaborare al film gratuitamente per pura passione e  a patto che potesse realizzare le armi e le armature con tessuti e bronzo veri. «Sul set quelle armi erano molto pericolose e abbiamo dovuto stare molto attenti alle norme di sicurezza. Nonostante le cautele, Salmo, per sbaglio, durante una prova mi ha dato una spadata sulla bocca dello stomaco. Mi ha fatto malissimo» racconta Aragoni.

 

8 – Il set del film è stato allestito in Ogliastra, a Seui, in mezzo al nulla, tra tacchi giganti di roccia. «Internet non c’era ed era fantastico, solo che ha rallentato molto la produzione- ricorda il regista – Per riuscire a comunicare con l’esterno eravamo costretti a salire in cima al nuraghe. Parlare con la mia ragazza o mandare un semplice SMS diventava una cosa epica con quella scalata».

9 – Sul set c’erano tantissimi insetti, di tutti i tipi. «Alla fine del terzo giorno di riprese vidi Pier S. J. che tossiva, mi disse che stava ingrassando le armature con del grasso animale e una mosca gli era entrata in bocca. La tosse era fortissima e iniziò a lacrimare. La gente di zona ci disse che era una mosca che depositava i vermi negli occhi delle pecore. Ce la facemmo sotto tutti- ricorda il regista – Un rimedio tra quelli proposti era quello mettersi dei rametti con foglie in bocca. Ricordo che abbiamo finito le riprese terrorizzati da quella maledetta mosca e tutta la troupe aveva o quei rami in bocca o le mascherine che ora siamo costretti ad usare. Pier Finì le riprese così ma al rientro si prese un antibiotico che eliminò i vermi».

10- All’inizio, prima che il progetto partisse e la produzione prendesse vita, prima che Salmo e chiunque altro si interessassero all’idea, l’idea era che il Nuraghe di teschi dovesse essere realizzato con teste mozzate. Ma era troppo costoso e difficile da realizzare in CGI (effetto visivo). «Con Alessandro Fele restammo fermi per mesi senza avanzare col progetto solo perché era troppo iconica come idea e non volevamo rinunciarci, ma, poi una mattina mi sono svegliato pensando ai teschi e dicendomi che ero un pirla a non averci pensato prima – ricorda Aragoni –  Usare i teschi sarebbe stato molto più iconico. Così lo dissi a Fele che mi rispose che era molto più fattibile, non semplice ma realizzabile. E così lo fece in quel modo. Quando uscì quell’immagine online, solo quella ebbe in risposta a bellezza di 20mila fan. Lì abbiamo capito quanta potenza avesse il progetto, da lì ci siamo messi all’opera, tante persone ci hanno dato l’energia giusta ed è nato tutto. Se quell’immagine non avesse funzionato, probabilmente non avremmo fatto nulla».

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

 

Ieri il congresso della Adiconsum, associazione dei consumatori promossa dalla Cisl, con la presenza del segretario regionale Giorgio Vargiu, ha confermato la tortoliese 54enne Laura Deriu alla presidenza.

Un bel pomeriggio di dibattito e di confronto, con tanti temi di interesse generale, dall’energia alla telefonia.

Nella relazione di apertura sono stati presentati i dati del lavoro dei volontari dell’associazione negli ultimi 4 anni. E’ stato ricordato che l’Adiconsum è un’associazione dei consumatori e di promozione sociale promossa dalla Cisl nel 1987. Si tratta di una realtà che anche in Ogliastra è in campo quotidianamente per rappresentare e difendere i consumatori nei vari settori.

Adiconsum in Ogliastra, svolge attività principalmente negli sportelli di Tortolì e Lanusei e le pratiche sono incentrate soprattutto a presentare reclami e proporre conciliazioni per contrastare abusi, soprusi, raggiri, truffe, pratiche scorrette, pubblicità ingannevoli. In una parola battersi contro le ingiustizie.

Insieme a queste attività i volontari sono impegnati nell’azione di supporto ai consumatori per aiutarli a scegliere con consapevolezza i migliori servizi e prodotti in un mercato che dovrebbe essere sempre più sostenibile dal punto di vista economico, sociale e soprattutto ambientale.

L’Adiconsum è diventata un punto di riferimento per migliaia di consumatori Ogliastrini che hanno la possibilità di essere ricevuti nelle sedi oppure interagire con mail, WhatsApp e sulle pagine social, in ogni settore: alimentazione, ambiente, bollette, casa, salute, credito e assicurazioni, poste, innovazione tecnologica, scuola, turismo e tanto altro ancora.

«Rivolgo un  ringraziamento a chi mi ha sostenuto e dato fiducia – ha affermato la presidente Deriu – Chi mi conosce sa che continuerò a mettere il massimo dell’impegno in questo ruolo, sempre più centrale. Infatti, viviamo tempi molti difficili e l’emergenza legata alla pandemia ha fatto crescerela crisi anche in Ogliastra. Nonostante si stia parlando di ripresa economica e dell’occupazione,siamo fortemente preoccupati, perché le problematiche legate alla fragilità di molti contesti familiari e sociali, il problema dell’aumento dell’inflazione e del caro energia si sovrappone ai numerosi tentativi di truffe e raggiri ai danni dei consumatori e delle imprese. Noi oggi siamo pronti a fianco della CISL a fare la nostra parte anche sulle tematiche di attualità: penso al caro bollette all’orizzonte e all’aumento indiscriminato dei prezzi e dei tassi di interesse. I consumatori e le famiglie vanno difesi e rappresentati perché sono la spina dorsale del nostro territorio e della nostra Regione».

 

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

Una passione irrefrenabile per i versi in lingua sarda, rigorosamente interpretata a memoria.

Parliamo dell’amore di tziu Cicittu Piga, centenario di Dolianova, per il canto in rima in “Limba” rigorosamente a memoria.

Una memoria prodigiosa quella dell’anziano, che alterna varie poesie e versi in diversi stili come un fiume in piena, animato da un entusiasmo invidiabile. Che sia questa passione e lo spirito sempre positivo, il suo elisir di lunga vita?

Per il video ringraziamo Angela Mereu e Pierino Vargiu, ambasciatori dei centenari sardi.

 

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi