Un equilibrio sempre precario e altalenante quello tra oppressi e oppressori, su questo equilibrio si basa il mondo, dal passato ad oggi, con le sue grandi rivoluzioni e grandi cambiamenti che tutti abbiamo studiato fra i banchi di scuola. Ma la storia non è fatta solo di grandi eventi, questi spesso hanno avuto luogo grazie alla volontà dei singoli, dalle spinte provenienti dalle piccole realtà. Questo è proprio ciò che successe nel lontano 8 settembre 1943 ad Ilbono.
Il regime fascista era ormai vicino al capolinea, il decentramento del potere centrale svelava tutte le sue debolezze come assenza di controlli, l’arbitrio dei suoi funzionari e questi limiti ad Ilbono si sono rivelati lampanti. Tale Sparaccini, inviato come segretario comunale dal regime, era un “continentale” o come si diceva a quei tempi “unu chi benit dae su mare” (uno che viene dal mare) spesso “po furai” (per rubare) che esercitava i suoi poteri in un contesto in cui nel paese erano presenti solo donne, bambini ed anziani.
Gli uomini, che all’epoca garantivano il maggior sostegno economico alle famiglie, si trovavano tutti al fronte o al confino, la fame dilagava e i viveri, già scarsi per la mancanza di braccia per l’agricoltura, venivano requisiti per essere inviati ai soldati. Il segretario del Comune di Ilbono privava le donne delle poche derrate inviate dallo stato per rifornire la propria dispensa personale nella residenza di Elini, provocando l’ira e il malcontento generale. Dopo le verifiche effettuate dai soldati, il vaso di Pandora fu aperto e le nefandezze commesse dal pubblico funzionario furono portate alla luce.
Una donna del paese Giulia Floreddu, allora incinta della sua secondogenita Rosa, il cui marito Gino Mameli, era stato arruolato come aviere fotografo presso l’aeroporto di Elmas, incitò e guidò una rivolta contro l’oppressore culminata con la sua cacciata. Un’azione eversiva che certamente varcò i confini della legalità, ma eticamente legittimata dal bisogno di sopravvivenza, non tanto per sé stessa, quanto per chi come lei vedeva ricadere sulle proprie spalle il peso di un’intera famiglia e indirettamente di un’intera comunità.
Giulia riuscì ad organizzare un nutrito gruppo di madri di famiglia e non solo che, nonostante fossero stremate e affamate, riuscirono a far desistere il segretario e a riottenere quanto gli spettava: quella scarsa quantità di cibo destinata in egual misura a tutti i cittadini e che in minima misura avrebbe alleviato le sofferenze della carestia, amplificata dall’isolamento, che il secondo conflitto mondiale provocava in particolare in ogni angolo della Sardegna.
Le rivoltose furono arrestate e recluse nella prigione di San Daniele a Lanusei secondo quanto previsto dalle leggi vigenti all’epoca. Mentre il procuratore del Re annunciò la liberazione di Giulia in quanto incinta, la convinzione e determinazione della “partigiana” come fu definita da alcuni compaesani, non si fece attendere: rifiutò di essere liberata se non insieme alle altre donne: “o totus o manc’una” disse, che significa “o tutte o nessuna”. Fu solidale con le sue compagne e restò reclusa per un mese per non abbandonarle.
«È come se avessi partecipato anche io alla rivolta», racconta Rosa Mameli, la figlia che Giulia portava in grembo mentre si trovava in carcere, «in fondo non avevo altra scelta. Quando ho appreso la vicenda mi sono sentita molto orgogliosa perché mi sono resa conto dell’intraprendenza di mia madre vista la precarietà in cui versava la mia comunità in quel periodo. Le donne, che spesso vengono erroneamente indicate come il sesso debole, in realtà hanno sempre avuto la capacità e la forza di risolvere i piccoli e grandi problemi della vita. Le vicende che hanno coinvolto mia madre, sono la prova che le donne possono farcela da sole, anzi, proprio da sole e nelle situazioni più difficili riescono a dare il meglio, ad essere solidali tra loro riuscendo a produrre grandi cambiamenti.»
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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi